mercoledì 22 luglio 2009

Recensione a Spuma sulle spighe 2 della Compagnia Anime di Carta in un giardino di Cristallo


Regia: Emanuela Petroni

Dramma di cupa e sobria potenza esistenziale, privo di indulgenze, preciso, quello messo in scena dalla Compagnia Anime di Carta per la Regia di Emanuela Petroni. Emerge subito dalla coralità di insieme di trovarsi al cospetto di un registro teatrale sperimentale dove però la fedeltà al testo si enuclea in tutta la sua centralità nella buona gestione dei singoli ruoli attoriali che danno l’impressione di essere parte di un "documentario fotografico" dove la realtà diviene dato oggettivo e si sostanzia di una locuzione temporale in continua sospensione.

Ed è proprio nello stallo apparente che in rivoli si distilla al tempo di una clessidra inteso come logos che risiede il fulcro dell’opera di Garcia Lorca, sapientemente riadattata dalla giovane regista reatina. Il concetto della casa è magistralmente alterato, quindi non sinonimo di focolare, unione, amore comprensione ma prostrato alla prigionia esistenziale e storica alla quale Bernarda assoggetta le figlie, spietatamente come personificazione di quella figura dittatoriale alla quale Garcia Lorca guarda con orrore e che di li a poco si sarebbe imposta in Spagna.

Da sottolineare è la compressione dello spazio scenico che se in prima battuta potrebbe risultare proibitivo in quanto la recita si svolge all’aperto, in secondo luogo risulta invece estremamente efficace in quanto la buona sincronizzazione degli attori isola bene la figura di Bernarda che imperiosa e spietata troneggia al centro, mentre le figlie obbligate da lei stessa a vestire a lutto sono disposte in forma di mezza luna attorno, quasi a richiamare la natura genitrice del cerchio che a mio avviso non si chiude giustamente in quanto il destino ha frantumato il legame genitoriale.

Le donne che occupano la casa di Bernarda Alba sono nane, costrette in una sorta di amputazione fisica che è sintomo della menomazione morale, e le attrici, recitando in ginocchio, subiscono una costrizione corporale che dà visibilità alla prigione psicologica dei personaggi, una coartazione carceraria che serve a instaurare disagio, nella concisa intuizione della regista Emanuela Petroni.

Dal punto di vista recitativo è apprezzabilissima l’interpretazione di Bernarda, pulita nella dizione e con una buona entratura in generale, mentre potrebbe essere più incisiva nell’uso del bastone che rappresenta il potere autoritario e quindi necessitava di maggiore autorevolezza poiché è proprio l’atteggiamento arrogante che fa si che le figlie ardano di passione interiore che non esiste dittatura in grado di frenare e tanto meno di controllare.

Di notevole spessore risulta l’interpretazione della vecchia madre pazza, lucida nella sua follia senile che vede la casa dunque come trappola, mondo dei conflitti segreti, dei rancori covati, ma che, tuttavia, dovrà preservare la facciata esterna della rispettabilità, per un confronto senza ombre con la comunità. Bellissimo l’iniziale monologo di quest’ultima che catalizza in se l’elemento estetico nell’atto di plasmare una statua dove l’attrice inizialmente è elemento neutro per poi forgiare costantemente l’ immagine di se coniugando in maniera esemplare quei due elementi quali teatro ed arte dove risiede non soltanto il percorso della vita ma il suo stesso futuro in quanto essa scopre e soddisfa nuovi bisogni e piaceri.

Immobilizzate nell'involucro della loro condizione di donne, non conoscono la Donna, la fisicità, la vita, ma provano ad immaginarla ed è quì che assume valenza il ruolo di Ponzia, l'unica che sa realmente guardare dentro di loro e che le spolvera un po' del grigiore in cui sono cresciute.

La Ponzia affonda le mani nel sangue delle ragazze, tastandone l'amore, l'odio, il rancore, la rabbia, l'invidia che ribolliscono nelle loro vene. Un ruolo dove l'attrice della compagnia Anime di Carta è molto brava nei toni recitativi di grande peso espressivo. Tensioni che non possono fare a meno di fuoriuscire, esplodendo nella violenza degli sguardi e nella crudezza delle parole. I respiri soffocati, i sospiri rassegnati, diventantano calore sprigionato, misto ad un'afa opprimente incontenibile che rischia di far sciogliere le pareti e di far dilagare la verità all'esterno.

Ma le mura della Casa di Bernarda Alba, ispessite da anni di dispotismo, di repressioni, di egoismo, di parvenze e di ipocrisie, non crollano e la Verità vi morirà all'interno insieme a Bernarda, che come un simbolo cui neanche la memoria deve sopravvivere verrà ricoperta dagli attori come in un processo iniziatico di scialli. E' la morte che le figlie salutano lierando una nuova civiltà.

Raoul Bianchini

I giovani e la politica


Della generazione «under 30» sono state date descrizioni più o meno fantasiose dai mezzi dell'opinione pubblica e dal mondo intellettuale. Generazione post-ideologica, bulli e senza educazione civica, protagonisti dell'era delle passioni tristi, frutto avvelenato dell'epoca televisiva. Quanti non hanno mai sentito gli adulti ragionare in questi termini dell'universo giovanile? E i giovani si ritrovamo in queste definizioni, che li descrivono senza punti di riferimento valoriali che non siano quelli trasmessi dai talk show televisivi?

Se queste definizioni sono giuste, e se davvero rappresentano in maniera efficace tale generazione, allora ci troviamo di fronte a dei giovani abbandonati ad un individualismo totalizzante, in cui quello che interessa è esclusivamente la propria affermazione e il soddisfacimento dei propri bisogni personali. Insomma, tanti piccoli tronisti o aspiranti veline alla maniera di “Ricordati di me” di Muccino.

In tale contesto, probabilmente non c'è spazio per la politica, se non in chiave minoritaria o forse riservata a piccole elites. Se i giovani sono tutti bulli o esclusivamente interessati alle scarpe di marca, e se non hanno ideali di alcun tipo, perché dovrebbero essere partecipi di uno spazio pubblico? Forse l'unico momento di partecipazione sarebbe il voto, in alcun modo legato a dei riferimenti ideali, ma solamente all'affidabilità dei candidati o alla particolarità di alcune proposte politiche. E l'unica politica possibile a cui si potrebbe aspirare e su cui un movimento politico guadagnerebbe consenso sarebbe quella del pragmatismo della buona amministrazione.

Questa è l'immagine che in gran parte viene data degli «under 30». E le manifestazioni di cui pure i giovani si sono resi protagonisti nello scorso autunno contro il ministro Gelmini sono state spesso derubricate ad espressione di una minoranza radicale, frutto più di un disagio giovanile che di una consapevolezza politica.

Ma è questo il caso? I giovani rappresentati in questo schema?

Certo forse è vera una cosa di questi ragionamenti. Ed è il rischio del ripiegamento di una generazione nel privato, in una dimensione sociale che diventa apolitica. Si rischia di pensare che la dimensione dell'impegno civile sia inutile perché priva di concretezza e di effetti reali sulla vita delle persone. Un ripiegamento non tanto quindi per una presunta mancanza di valori civili tra i giovani, quanto per l'assunzione piuttosto radicata nella società che un cambiamento profondo in questo paese la politica e in particolar modo i partiti non sono in grado di portarlo, e che la politica in fondo non è molto più che populismo per attirare consenso.

I partiti appaiono deboli e senza bussola di fronte alla forza e alla concretezza delle lobbies e degli interessi dei potentati. Si rischia di credere che la realtà sociale sia dettata da comportamenti degli individui e dei corpi sociali immutabili nel tempo. D'altra parte nel senso comune, per fare degli esempi, quando si parla di una burocrazia lenta ed inefficiente, di un'istruzione incapace di rispondere alle sensibilità dei giovani, si pensa che questi problemi non verranno mai risolti.

Le questioni aperte di fronte a noi, ed in particolar modo alla generazione «under 30», sembrano talmente grandi che appaiono spesso insormontabili. Costruire davvero la dimensione europea della vita civile, trovare nuove forme di welfare che servano a superare la precarietà, lavorare per avere una pensione dignitosa, ripulire la politica dai fenomeni di corruzione e liberare il nostro paese dal problema della criminalità organizzata, sono solo esempi di problemi vecchi e nuovi di non facile soluzione, che richiedono riforme o processi sociali coraggiosi. Riforme che cozzano contro interessi forti nel nostro paese, e che spesso la politica sembra troppo debole e complicata per affrontare. E quindi le percepiamo troppo spesso come questioni insite nella società, quasi come un peso imposto, condizione accessoria del vivere assieme. Cose da cui non si può fuggire se non magari cambiando paese, perché non c'è modo di cambiarle attraverso processi di emancipazione collettiva. La cultura ci ha abituato troppo al supereroe, con cui ci possiamo identificare ma che possiamo anche ritenere irrimediabilmente lontano da noi.

E allora che senso ha la politica per un giovane, se sembra non riuscire ad incidere sui problemi delle persone e della collettività? Se il problema principale dei partiti diventa vincere le elezioni successive e produrre una mera alternanza del potere nelle istituzioni, allora tutto viene sommerso dal tatticismo della politica mediatica e scompaiono le grandi battaglie politiche.

In quest'ottica però il problema allora non è l'incapacità di una generazione di sentirsi “animali sociali”, ma la debolezza della politica in questo ultimo decennio nell'incidere sulla realtà e sull'immaginario sociale indicando una prospettiva chiara di futuro e sulle priorità che aveva in mente. Una politica spesso troppo astratta, vissuta nel dibattito pubblico esclusivamente attraverso i giornali e la televisione, che non ha chiesto la partecipazione attiva dei cittadini e dei giovani fra questi, ma solo un voto o nel migliore dei casi un supporto da “fan”.

D'altra parte non ci si può stupire, perché sono i partiti stessi che in questi anni hanno spesso teorizzato la fine delle ideologie e la supremazia del mercato sulla politica. Questo in teoria avrebbe dovuto portare sempre più benessere alla collettività. Un mercato sempre più in grado di permeare la società e di ridurre lo spazio delle scelte pubbliche, con la finanza a farla da padrone. Ed in un contesto come questo la politica ha teorizzato la sua inefficacia, riducendosi a buona amministrazione nel migliore dei casi, e quindi ad una contesa su chi fosse in grado di adempiere al meglio ad alcuni compiti fondamentali (portare crescita all'economia, razionalizzare al meglio la spesa pubblica, abbassare le tasse, ecc.).

In altri casi ci si è trovati di fronte ad una presunta contesa sui valori, di cui la polemica sul berlusconismo è stata l'espressione più riconoscibile, e quindi si è ridotto il confronto politico al problema su quale coalizione avesse il tasso di moralità più elevato. Entrambi i temi dimostrano la debolezza della politica nel farsi promotrice di riforme profonde nella società, e tutto questo è dimostrato fra le altre cose da un'incapacità di mobilitare i cittadini se non in chiave prettamente identitaria (la manifestazione PD del 25 ottobre 2008 mi pare un esempio lampante, come lo era stata quella della PDL del 2 dicembre 2006). E chiaramente le giovani generazioni sono state le prime vittime di questa concezione della politica e dei partiti, perché si può dire che proprio negli anni di più intensa debolezza della politica una generazione è cresciuta, si è formata culturalmente e civilmente, e si è avvicinata al dibattito pubblico. Spesso allontanandosene, pensando alla politica come a qualcosa da scrutare col binocolo, in maniera distratta e solo nei periodi pre-elettorali, e relegandola ad aspetto marginale della propria vita.

Allora come fare per riallacciare un rapporto fra partiti e giovani generazioni? Non vi può essere una soluzione a questo rapporto che prescinda dalla questione della crisi della politica nel nostro paese. Anche perché non solo spesso i problemi che vivono i giovani italiani assomigliano a quelli degli adulti, ma soprattutto perché il dibattito politico in questo paese, anche per i canali attraverso cui passa, è fondamentalmente intergenerazionale.

I momenti più frequenti di discussione politica per un giovane sono davanti ad una televisione accanto ai propri genitori. Però forse ricostruire dei partiti credibili e radicati nella società servirebbe più a quella generazione che ai più anziani, per un motivo semplice: i giovani si stanno formando in questi anni, e l'idea che avranno anche in futuro della politica passa principalmente per quello che vivono oggi. Le generazioni precedenti hanno comunque ormai acquisito un'idea sulla politica che gli viene dalla loro esperienza passata, dalla storia di questo paese. E in questo senso continuano, seppur con sempre maggiore disincanto, a votare alle elezioni come dimostra comunque l'alto livello di partecipazione al voto che si registra in Italia.

Quindi, per i giovani soprattutto, serve un nuovo dibattito pubblico e dei partiti che si pongano il problema di una nuova rappresentanza rispetto a questi ultimi anni. Coniugare la presenza nella società (dai territori, ai luoghi di lavoro, alle scuole e le università per le giovani generazioni), le singole proposte sui problemi di questo paese (progetti di legge, azioni amministrative, ecc.), con la capacità di sapere indicare una direzione ideale e una prospettiva di lungo periodo. Perché in questi anni la capacità di saper esprimere proposte di programma sui singoli temi è stata anche buona da parte dei partiti, ed è stata frutto di una seria capacità di analisi dei problemi della società italiana. Per fare un esempio che coinvolge direttamente i giovani, le proposte sulla scuola del centrosinistra, a partire dall'autonomia per arrivare alla riforma dei cicli, erano il risultato di un dibattito importante sulla formazione delle giovani generazioni nella società moderna. Quello che è mancato forse è stata la capacità di saper coniugare tutto questo con una prospettiva credibile di più lungo periodo da offrire ai cittadini. Un elenco di priorità concrete ed ideali, che definisse un progetto per l'Italia. Non un elenco di valori da presentare come carta d'identità e quindi come certificato di sana moralità, ma una cornice ideologica per definire gli obbiettivi da raggiungere, anche in termini ideali.

Pensare che questo non fosse necessario è stato l'errore di questi anni, che ha portato la politica ad essere percepita come inutile in special modo dalle giovani generazioni. Un giovane, se non vede un cammino di fronte a sé che possa essere coronato da obbiettivi da raggiungere, e se non vede delle risposte sul senso di quello che ha intorno, perché dovrebbe percepire come importante la politica e parteciparvi?

Certo, poi tutto questo deve passare dall'astrattezza della discussione teorica alla prassi, che è capacità dei partiti e dei suoi movimenti giovanili di essere presenti nella società con le orecchie drizzate, di elaborare orizzonti che stiano nella storia di questo paese, di costruire partecipazione, iniziativa politica, e mobilitazione sulle proprie battaglie. Non è un passaggio scontato, e passa per il buon funzionamento delle strutture organizzate dei partiti e dei movimenti giovanili e per la capacità delle tante persone e dei tanti ragazzi già impegnati di essere all'altezza delle proprie responsabilità. Se questo accadrà in un prossimo futuro, ne uscirà rafforzata la politica e le giovani generazioni, che vedranno finalmente affrontati con credibilità i loro problemi. In definitiva, ne uscirebbe rafforzata la democrazia nel nostro paese. Nel suo piccolo, ogni iniziativa politica giovanile non può che far bene.

Eugenio Levi

giovedì 16 luglio 2009

Santana a Brescia: spirito sempreverde nonostante vocalist giù di tono e fans…invecchiati


Il tour Europeo di Carlos Santana ha fatto ieri tappa a Brescia, dove in una serata afosa, 30 gradi alle 20:45, circa 4 - 5000 persone hanno potuto ammirare lo smalto ancora lucido dello Sciamano.

Occhi semichiusi, cappello calato quasi a nascondersi, concentrato come un neurochirurgo in sala operatoria o paziente come un sacerdote nel confessionale, Santana si infila nelle sue chitarre a cercarne l’anima, le sfiora, le bussa, le cambia l’un l’altra delicatamente coccolandole, diviene spirito immateriale, afflato musicale, lui stesso anima vera delle sue chitarre. Definire la musicalità di Santana quale rock latino è veramente riduttivo. Il genere Santana merita una sua nozione e una sua menzione indipendente!

Santana parla al pubblico con poche parole per ribadire il suo messaggio, portato concretamente avanti dalla Fondazione Milagros (cui sono stati devoluti 1 € per biglietto), con un messaggio di invito alla compassione, al perdono, invocando pace e amore come fa da 40 anni a questa parte con le sue musiche, le sue parole e soprattutto con le sue opere.

Il pubblico? Beh, il pubblico è un’altra cosa: è una serata calda, il palco di Piazza della Loggia non è pieno, si vedono sedie vuote, ma soprattutto il pubblico è statico, non si eccita neanche nelle prime file, aspetta il passare delle telecamere per elargire un sorriso, ma non riesce proprio a sintonizzarsi con Santana, perde il ritmo non sente le vibrazioni. Vuoi vedere che il pubblico di Santana invecchia e lui no?

Eppure vibrazioni voraci promanano dal placo affollato da ottimi musicisti, Jeff Cressman e Bill Ortiz agli ottoni, Dennis Chambers, Karl Perazzo, Raul Rekow alle percussioni, Benny Retvield al basso e in evidenza su tutti Tommy Anthony alla chitarra elettrica e il tastierista Chester Thompson che quasi ruba la scena a Carlos per come diviene tutt’uno con i suoi strumenti facendoti pensare che da un momento all’altro se lo risucchia la tastiera…

In tanta abbondanza di artisti, Andy Vargas (il vocalist hispano americano) sembra a tratti giù di tono, mentre non male Tony Lindsay, “la pantera nera” come lo definisce Carlos anche se nel complesso - a livello vocale - credo sia mancata qualche voce femminile di supporto.

Il programma ha ripercorso il cammino di Santana da Woodstock Soul Sacrifice, passando per She’s not there, Evil ways, A love supreme, Foo Foo, Smooth, per finire ai grandi successi commerciali Maria Maria, e Corazon Espinado con un omaggio virtuosistico a Rodrigo (concerto di Aranjuez) e qualche scherzo qui e lì come con Besame mucho.

E’ un programma che continua in altre cittá d’Europa da Kitzbuehel in Austria, a Mainz, Straubing, Halle e Dortmund in Germania per finire al circuito di Silverstone il 25 luglio. Non perdetelo!

Raffaele Luise

mercoledì 15 luglio 2009

Toccatemi tutto, ma non il mio Joseph


Roberto Balducci, vaticanista del Tg3, è stato rimosso dal suo incarico. Nel servizio andato in onda domenica 12 luglio durante il telegiornale della sera, aveva definito i presenti in Piazza San Pietro come “quattro gatti che hanno ancora la pazienza di ascoltare il Papa”. Un’uscita sicuramente infelice e in parte non comprensibile, ma - a nostro modestissimo avviso - assolutamente non degna della rimozione del giornalista dall’incarico.

Alle numerose critiche e strumentalizzazioni politiche delle ore successive ha risposto il direttore della testata, Antonio Di Bella, con una tempestiva comunicazione in bacheca: ''a partire da oggi il collega Roberto Balducci non seguirà più il Vaticano''. Nonostante le scuse formali presentate dall’autore della battuta - sicuramente di dubbio gusto - e la presa di posizione in difesa del collega da parte del Comitato di Redazione del Tg3 non c’è stato nulla da fare e la decisione è apparsa immediatamente irremovibile.

Quest’ultimo evento è soltanto una goccia nel mare ed è sempre più evidente l’influenza esercitata dal potere cattolico sul mondo dell’informazione. Intendiamoci, il Papa merita il massimo rispetto da parte di tutti, come la Chiesa Cattolica stessa ed i rappresentanti delle altre religioni presenti in Italia. Ma questo non deve comportare un servilismo assoluto da parte di istituzioni, mezzi di informazione, cittadini alle logiche dell’istituzione ecclesiastica. L’Italia è uno Stato sovrano e laico, libero da qualsiasi ingerenza del potere temporale: questo principio andrebbe ribadito, rimembrato a chi di dovere ed inciso nel bronzo per le generazioni future.

Balducci ha fatto dello spirito in maniera inopportuna, è innegabile. Ma non significa che debba perdere il proprio posto per questa futile motivazione. Se in Italia tutti i giornalisti che fanno humour, criticano, o peggio ancora diffamano - non importa se nell’ambito o meno di un servizio pubblico - dovessero essere sospesi, rimossi dall’incarico o licenziati, allora sì rimarremmo davvero in quattro gatti a svolgere questa professione.

Il problema è il rapporto Chiesa-media, senza ombra di dubbio in equilibrio precario su di un filo di lana. Spesso l’opinione pubblica cattolica aggredisce letteralmente giornalisti ed esponenti del mondo dello spettacolo con idee difformi dalle proprie, come se non avessero una spiritualità e fossero tutti quanti degli aridi atei, peccatori e materialisti.

Possiamo portare vari esempi a dimostrazione. La simpaticissima imitazione di Benedetto XVI fatta da Maurizio Crozza su La7, risalente ormai a qualche anno fa, è stata duramente attaccata dagli ambienti vicini al Pontefice e dagli esponenti politici del mondo cattolico. Stessa sorte per il “Decameron” di Daniele Luttazzi qualche tempo dopo, addirittura cancellato dalla programmazione.

In politica estera, invece, dopo la discutibile dichiarazione di Ratzinger sulla contraccezione come male che “snaturerebbe il senso dell’unione” - per di più esternata in Africa, dove l’AIDS è una piaga sociale che miete un numero spropositato di vittime ogni anno - e le critiche ricevute all’unanimità da fonti più disparate, l’entourage del Papa si permise addirittura di attaccare il governo belga, colpevole di aver criticato i discorsi del Pontefice.

La realtà è che la massima istituzione ecclesiastica è oggi un moloch intoccabile, uno dei pochi nell’ambito dell’informazione italiana ed europea, forse secondo soltanto a quello rappresentato dalla comunità ebraica.

Quest’altro aspetto meriterebbe una trattazione a parte, per dimostrare che in Italia c’è sì libertà d’informazione, ma è una libertà condizionata. Provate ad aggettivare in maniera critica lo Stato di Israele, o anche soltanto lodare un singolo aspetto - vanno bene pure il clima o la gastronomia - di qualsiasi Stato ritenuto ostile e preparatevi ad un’autentica pioggia di invettive ed accuse di antisemitismo e nazismo da parte dei più accaniti esponenti dei vari consessi ebraici italiani. Qualsiasi riferimento, anche il più casuale ed indiretto, provocherebbe una reazione che sarebbe addirittura eufemistico e riduttivo definire spropositata. E per fortuna siamo in democrazia.

Le derive estremiste e radicali, in ogni campo, dalla politica alla religione, passando per l’economia e l’informazione, non portano a nulla di buono, soltanto alla creazione di barriere e divisioni tra gli uomini. Se non c’è dialogo, se non c’è rispetto per l’opinione altrui - e Voltaire ai giorni nostri si rivolterebbe nella tomba di 360 gradi, quasi come un kebab sul girarrosto - se non c’è libertà di informazione e di pensiero, non può esistere la convivenza serena fra i vari popoli che abitano il nostro pianeta.

Alessio Lannutti

Roma capitale dello sport


Il 2009 è stato un anno che ha visto Roma muoversi come protagonista dello sport. La nostra capitale è stata infatti consecutivamente selezionata come sede di ben tre eventi sportivi di caratura internazionale, ed altri meno noti (Euro Beach Soccer 09, Circo Massimo) ma altrettanto significativi per rendere apprezzabile l'ottima disponibilità dimostrata dalla città a presentarsi come teatro d'elite, per spessore del contesto urbano e per le buone capacità organizzative riscontrate in tutte le manifestazioni svoltesi.

Una finale di Champions League (giocata allo Stadio Olimpico, e vinta dal Barcellona), l'ormai classico Golden Gala per l'atletica leggera (con presenza di atleti di livello mondiale, come Tyson Gay e Asafa Powell), e il tanto atteso Mondiale di Nuoto Roma 09 che si terrà dal 17 luglio fino al 2 agosto, hanno dimostrato che Roma città non ha nulla da invidiare a capitali europee più blasonate: sicurezza, qualità organizzativa e buona presenza di pubblico appassionato hanno reso impeccabile il perfetto svolgersi di questi eventi, e con in più il forte calore che solo una città italiana riesce a manifestare indistintamente dalla nazionalità dei protagonisti in scena.

Roma ha dato un ottimo esempio di sportività e disponibilità. La cultura dello sport è storicamente ben presente, fondamentale, in ogni società sviluppata che apprezzi il vivere bene e la partecipazione sociale ad attività comuni; per queste ragioni, vero significato del concetto "sport" (che dall'inglese, ricordiamolo, significa "divertimento"), ci auguriamo che l'attuale amministrazione ed anche le successive, indistintamente dall'appartenenza politica, tengano sempre un occhio di riguardo sull'ambiente sportivo della capitale, con più incentivi e marcata promozione anche e soprattutto per lo sport di livello amatoriale, non solo per eventi di spessore già affermato, per consentire a chiunque di poter liberamente praticare in sicurezza l'attività che più lo appassiona, e anche perché, ricordiamolo, i campioni del domani, che parteciperanno ad eventi più ambiti, i nuovi Lionel Messi, Tyson Gay e Michael Phelps nascono ed hanno bisogno di crescere in ambienti sportivi sani e che siano liberamente aperti a tutti.

Marco Montoro

martedì 14 luglio 2009

Facebook: da social network virtuale a social network reale


Facebook: il più grande social network della rete internet in cui milioni di persone instaurano rapporti di amicizia, dialoghi, emozioni tutto in maniera virtuale, dietro i sensori dei bit del computer. Tanto se ne è parlato e tanto se ne parlerà, tanti saggi sociologici verranno scritti per analizzare il fenomeno che ha talmente catalizzato la vita di numerosi utenti cibernetici da apparire con il suo logo in una delle prove di esame della maturità appena trascorsa. Cosa accadrebbe però se il virtuale dovesse un giorno materializzarsi e diventare reale e concreto?

Dovesse cioè uscire dallo schermo e dalla tastiera del pc e catapultarsi nelle sembianze di persone in carne ed ossa? A parlarne così sembra cosa lontana dall'accadere, ma da qualche mese per un gruppo di facebook dal nome alquanto coraggioso - “Salviamo il Lago Albano” - sembra proprio essersi verificato il salto di qualità ed il passaggio dal social network virtuale a quello reale.

Il gruppo, nato per volontà del suo fondatore Luca Nardi, conta più di 2000 iscritti e nel mese di marzo, superata la fatidica soglia delle migliaia di adesioni, decide di convocare una riunione nella cittadina dei Castelli Romani di Albano. La riunione ha avuto un solo scopo: tentare di avviare un serio lavoro sul territorio e salvare, nel vero senso della parola, il bacino lacustre su cui si affaccia la residenza estiva del pontefice, ormai da anni sottoposto ad un forte inquinamento e ad un continuo e perpetuo abbassamento.

In quattro mesi di strada ne è stata fatta e di azioni ne sono state portate a compimento parecchie, prima fra tutte quella di smuovere le coscienze. Così infatti Luca Nardi, fondatore del gruppo virtuale “Salviamo il lago Albano”, definisce l’intento principale del lavoro che sta portando avanti insieme ad altri cittadini dei Castelli Romani per la tutela del bacino lacustre di Albano e Castel Gandolfo: “Vorremmo essere una leva sulle discussioni politiche soprattutto per favorire una pianificazione urbanistica più attenta sul territorio ed evitare le già forti ripercussioni sull’area verde dei Castelli Romani il cui centro è rappresentato proprio dal lago di Albano. E' necessario che ci sia una cultura civica nella tutela del lago. Bisogna combattere l'illegalità e l'abusivismo. Ci sono circa 40000 pozzi abusivi che prelevano acqua dalla falda di alimentazione del lago provocando un aumento della concentrazione dei metalli e inoltre bisogna frenare i prelievi diretti che creano l'abbassamento delle acque del lago. Inoltre la mancanza di servizi e di infrastrutture ha provocato una disaffezione dei cittadini del luogo verso il lago e il suo destino e quindi per questo la nostra mobilitazione vuole far riflettere la cittadinanza sulla questione.

"Il gruppo “facebookiano”, dopo una giornata di mobilitazione a giugno, un primo passo concreto lo ha ottenuto anche sul piano istituzionale inviando una lettera formale a tutti i sindaci dei paesi dei Castelli Romani chiedendo con parole forti una presa di posizione in favore di politiche ambientali più serie.

Il testo della lettera che riportiamo qui di seguito, si chiude con una firma inusuale per una lettera istituzionale che ci fa capire quanto la rete e i social network abbiamo la forza di riunire persone e portare avanti un obiettivo, magari molto più dei canali tradizionali di rappresentanza, delle istituzioni e dei partiti. Una firma di un gruppo virtuale che sta portando avanti nel concreto istanze reali.

Francesca Ragno



Cari Sindaci,

il gruppo, nato su Facebook da qualche mese e con oltre 2000 iscritti, vi chiede pubblicamente di intervenire affinché si ponga in atto una drastica interruzione dell’urbanizzazione e del consumo di territorio dell’area Castelli Romani.

Molti cittadini sono ormai stanchi di assistere quotidianamente alla deturpazione ed all’abuso di territorio che stanno irrimediabilmente compromettendo l’area dei Castelli Romani ed altri oltre a noi si stanno organizzando in movimenti spontanei di opinione.

Voi siete perfettamente consapevoli che l'area del lago e dei Castelli è già in fase di dissesto idrogeologico, il patrimonio paesaggistico e artistico rischia di essere irreversibilmente compromesso, l’agricoltura scivola verso un impoverimento senza ritorno, le identità culturali e le peculiarità di ciascun territorio sembrano destinate a confluire in un unico, uniforme e grigio contenitore indistinto. Il consumo di territorio nell’ultimo decennio ha assunto proporzioni preoccupanti e una estensione devastante. Pur in presenza di un sensibile calo demografico della popolazione italiana negli ultimi vent’anni, il nostro Paese ha cavalcato una urbanizzazione ampia, rapida e violenta. L'area intorno al lago Albano non si è sottratta a questo scempio dell'ambiente e a questa urbanizzazione incontrollata.

Anche da noi le aree destinate a edilizia privata, le zone artigianali, commerciali e industriali si sono moltiplicate ed hanno fatto da traino a nuove grandi opere infrastrutturali . Questa crescita senza limiti considera il territorio una risorsa inesauribile, la sua tutela e salvaguardia risultano subordinate ad interessi finanziari spesso solo speculativi: un circolo vizioso che, se non interrotto, continuerà a portare al collasso intere zone e regioni urbane dando vita a quella che si può definire la “città continua”.

Dove esistono paesi, identità culturali, il rischio è a breve che si trovino immense periferie urbane, quartieri dormitorio e senza anima; i Castelli romani potrebbero di questo passo diventare un unicum indifferenziato con la periferia romana. Ecco allora che il risparmio di suolo e la cosiddetta “crescita zero”, cioè indirizzare il comparto edile sulla ricostruzione e ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio già esistente, è la vera soluzione alla cementificazione diffusa che reca con sé la desertificazione dell'ambiente, la minore penetrazione dell'acqua nel terreno, la conseguente perdita di risorsa idrica e dunque, anello finale ed evidente come si vede, l'abbassamento del livello di un lago come quello di Castel Gandolfo che oltre ai prelievi diretti (che andrebbero dimezzati) viene quotidianamente emunto da decine di migliaia di pozzi (quelli accertati) che abusivamente attingono alla sua acqua.

Le nostre materie prime sono i laghi, i boschi, le campagne ed i vigneti, il patrimonio archeologico ed i centri storici.

Fermiamo pertanto la distruzione e la perdita di identità, creiamo insieme una vera e nuova idea di sviluppo incentrata sulla rivalutazione e la riqualificazione ambientale, paesaggistica ed infrastrutturale del nostro territorio.

Avremo cultura, formazione, opportunità di lavoro e potremo scrivere una storia positiva per le generazioni che verranno.

Promuoveremo pertanto una raccolta di firme rivolta a voi Sindaci dei comuni dei Castelli Romani affinché:

A) ripensiate i piani regolatori e le lottizzazioni previste facendo una precisa “mappatura” di case sfitte e capannoni vuoti, promuovendo una moratoria dei piani regolatori nell'ottica di un nuovo modello di sviluppo che tenga conto dell'uomo e della natura, prima che del cemento.

B) vietiate la pratica degli accordi di programma con i privati e il cambio di destinazione d'uso dei terreni (es: da agricolo a edificabile)

C) provvediate a costituire subito una commissione di studio scientifico-istituzionale con la finalità di elaborare una normativa (all’interno delle leggi delle autonomie locali e del decentramento federalista e della sussidiarietà) che renda istituzioni sovracomunali di sensibilità elevata in campo ambientale, fondamentali (anche se non esclusive) nell’indirizzo delle politiche territoriali. Di detta commissione si propone debbano far parte rappresentanti dei comuni, del parco dei castelli ed un congruo numero di esperti nella programmazione e salvaguardia ambientale

D) coordiniate in una conferenza intercomunale l'uso dei fondi regionali destinati alla tutela dell'ambiente e spesso invece stornati per ulteriori opere di cementificazione del territorio

E) promuoviate e rendiate pubblici tutti gli studi e le analisi in loro possesso commissionati in questi anni a tecnici dell'ambiente che spesso hanno evidenziato la non ulteriore sostenibilità di una urbanizzazione così contraria all'equilibrio naturale dei Castelli romani.

F) ascoltiate i cittadini, le organizzazioni ambientaliste, le ragioni di un nuovo modello di sviluppo e pensiate in modo nuovo a politiche urbanistiche al centro delle quali ci sia la qualità della vita delle persone e il rispetto diffuso per l'ambiente ed il paesaggio

G)facciate dunque votare ai vostri consigli comunali un ordine del giorno aderente agli obiettivi di questo documento, sottoscrivendo quindi l'obiettivo di bloccare il consumo di suolo, costruire esclusivamente su aree già urbanizzate, salvaguardando perciò in questo modo concreto e forte il patrimonio storico paesaggistico del lago Albano e dei Castelli romani.

Speriamo pertanto che questo nostro appello venga da voi ascoltato e che a breve termine vorrete aprire un dibattito aperto e propositivo e fornire a noi cittadini comuni dei Castelli Romani, risposte concrete che salvaguardino la nostra qualità della vita, la nostra salute, l’ambiente in cui viviamo. Grazie.


GRUPPO FACEBOOK ‘SALVIAMO IL LAGO ALBANO’

Fahrenheit via Appia nuova


Il 12 luglio 2009 sarà ricordato da molti romani come il giorno dell’incendio di via Appia nuova. Nel primo pomeriggio le fiamme sono divampate da un autodemolitore e da un deposito giudiziario della Polizia Municipale siti in via dell’Almone, proprio all’incrocio con via Appia nuova. Comprensibile la preoccupazione dei cittadini e delle Forze dell’Ordine stesse. L’incendio ha infatti raggiunto in poco tempo dimensioni considerevoli portandosi a ridosso delle abitazioni e del Parco della Caffarella, polmone verde del quartiere Appio Latino.

Le continue esplosioni a catena di pneumatici, serbatoi, bombole del GPL delle autovetture parcheggiate hanno allarmato la popolazione residente nelle zone limitrofe. Le strade sono state immediatamente chiuse al traffico ed alcuni cittadini evacuati dall’area interessata.

I Vigili del Fuoco hanno impiegato tutta la notte per avere la meglio dell’incendio, impiegando diverse autopompe, un elicottero e dei mezzi speciali di stanza all’aeroporto di Ciampino. I pompieri sono stati costretti ad avanzare provvedendo allo spegnimento dei singoli autoveicoli, proprio per evitare eventuali ulteriori esplosioni che avrebbero potuto mettere a rischio l’incolumità degli uomini. Le autorità non escludono ancora la natura dolosa dell’evento.

Scene da film in un torrido pomeriggio romano di (quasi) mezza estate. La nube di fumo era visibile praticamente da ogni zona della città, oltre i limiti del Grande Raccordo Anulare, in un’atmosfera che non faticherei a definire surreale.

In un’epoca come la nostra, dove al minimo segnale di pericolo istintivamente perdiamo il lume della ragione per cercare un riparo, facendo prendere il sopravvento a paura ed avventatezza, un evento di tale portata ha sicuramente turbato la psiche di un certo numero di cittadini, specialmente di quelli direttamente interessati, residenti a pochi passi dal luogo del grande incendio. Pur non avendo ancora raggiunto i livelli di isteria collettiva dei paesi anglosassoni - dove uno zaino abbandonato fa scattare reazioni ipocondriache da parte dei presenti ed una qualsiasi “combustione spontanea” viene scambiata per un attentato terroristico di matrice fondamentalista (attenti a non fumare mai in luoghi chiusi, potrebbero scambiarvi per un seguace di Osama Bin Laden) - nelle varie fasi dell’incendio ci siamo difesi benissimo. A dimostrazione che a volte è proprio l’irrazionale a provocare tendenze maniacali negli individui.

I romani hanno letteralmente tempestato i centralini dei Vigili del Fuoco con un ritmo martellante di 60 telefonate al minuto, effettuate dalle zone più disparate della capitale. Magari, per i curiosi sarebbe stato più opportuno accendere la tv, la radio, collegarsi al sito dell’Ansa, al limite - qualora ritenuto strettamente indispensabile - fare quattro passi in direzione della nube di fumo, piuttosto che occupare per scopi talmente frivoli e voyeuristici delle linee destinate alle emergenze. Da buoni italiani, oltre a telefonare ai Vigili del Fuoco quasi fossero un numero utile al quale chiedere informazioni, indirizzi e previsioni del tempo, molti hanno ben pensato di recarsi direttamente sul posto in una sorta di pellegrinaggio nel luogo dell’evento. Famiglie, anziani, coppiette. Erano tutti presenti, raminghi per via Appia come formiche impazzite. Alcuni probabilmente avevano fatto svariati chilometri solo per poter dire “c’ero anch’io”. Per la serie, non ci lamentiamo poi se all’estero ci etichettano in un determinato modo, prendendoci pesantemente per i fondelli.

Nell’incendio è rimasto leggermente ferito un pompiere, che fortunatamente se la caverà. Approfittiamo dell’occasione per porgere un ringraziamento al corpo dei Vigili del Fuoco, per il coraggio dimostrato ogni giorno e la solerzia e tempestività negli interventi.

Alessio Lannutti

lunedì 13 luglio 2009

Guido Traversa e la consulenza filosofica


In un mondo in cui a prevalere sono gli “interessi” materiali dell’uomo e si dà valore quasi esclusivo alla rincorsa del piacere, al consumismo, alla soppressione della dignità umana, parlare di consulenza filosofica può apparire del tutto fuori luogo.

Per fortuna, non è cosi, se consideriamo i passi da gigante che questa nuova disciplina ha fatto negli ultimi anni, grazie al contributo determinante di studiosi e filosofi come Guido Traversa e al supporto scientifico di organismi qualificati, come l’Istituto di filosofia e antropologia clinica esistenziale.

All’apparire sulla scena accademica e nella realtà quotidiana di questa nuova “figura professionale” (il consulente filosofico), molti studiosi hanno cercato di circoscriverne i confini e di separarla dagli altri “operatori” che agiscono nel campo della terapia psichiatrica, psicologica, psicoanalitica e del counseling.
La ricerca di una distinzione con altre discipline è stata, però, una forzatura, che non ha tenuto conto e non considera affatto che la filosofia è già di per sè una prassi, una scienza che mira ad una comprensione più vasta e organica della realtà, in cui l’esperienza umana viene considerata nelle sue varie possibilità.

E’ proprio per questi motivi che la consulenza filosofica è stata anche individuata come filosofia pratica o come ontologia applicata, termini che mettono in rilievo lo scopo e l’”essere” della filosofia, che può essere definita come una particolare forma di comprensione delle condizioni esistenziali degli individui o dei gruppi e di quelle situazioni, conflittuali o meno, in cui l’uomo cerca di dare alla sua azione o alla propria vita un senso di compiutezza e di appagamento.

La filosofia, in sostanza, è un modo particolare di sapere e di capire; un metodo “obiettivo” che, contrariamente ai sistemi usati dalle altre scienze, coglie e “lega” tutte le diverse dimensioni dell’oggetto, degli atti o dei fatti a cui ci si riferisce nei processi della conoscenza e dell’esperienza.
In tale logica, la consulenza filosofica non dovrebbe essere finalizzata - principalmente - all’analisi del disagio individuale o collettivo, ma all’individuazione di strumenti concettuali che incentivino le condizioni di benessere della persona, nelle sue varie dimensioni (rapporti sentimentali, rapporti di lavoro,ecc.).

La filosofia, cosi intesa, può considerarsi come un’arte che permetta di distinguere e valutare meglio le condizioni dell’esistenza (da rifiutare se appaiono negative, o da accettare, se positive) e di capire un qualcosa rispetto al quale si deve agire e dove l’agire precede il capire, come è nel caso di quei processi personali, interpersonali o sociali in cui l’uomo sembra aver già acquisito un habitus di adeguatezza a sé e agli altri.

Ciò, generalmente, viene chiamato saggezza, la quale non è altro che la capacità di mettere in atto l’azione giusta al momento giusto.
La saggezza e l’esame dei propri “livelli” di vita, a loro volta, portano quasi spesso a ricercare la pratica di esercizi (anche spirituali) e di metodi riflessivi e di analisi, che hanno lo scopo di evidenziare quei dettagli, accidenti e differenze minime che sono alla base di ogni esperienza.

La filosofia diventa allora, non terapia, ma esercizio continuo di valutazione cognitiva della propria vita, capacità che è intrinseca a tale scienza che, mettendo insieme aspetti logici, ontologici, etici ed estetici, riesce a organizzare in un’unità sistematica una forma organica di pensiero.
Un pensiero che - sorretto dall’analogia, dall’esperienza dell’empatia, dal ruolo della memoria, dalla prassi della responsabilità e dall’analisi delle difficoltà di “esercizio” della libertà - guarda al concetto di identità non in modo univoco, rispetta la disomogeneità della realtà e sa cogliere l’unità nel molteplice e il molteplice nell’unità.

Stabilito il campo di azione in cui opera la filosofia (che non è solo quello delle scienze naturali, ma anche quello delle scienze umane) si può dire che essa ha la finalità di interagire “produttivamente” con il vissuto del singolo individuo.
Per cui, a seconda dei casi, si ha la consulenza filosofica individuale, la consulenza di gruppo, quella indirizzata alle professioni con maggiore carico di responsabilità etica e la consulenza aziendale.

In tutti questi settori, la filosofia attua il cosiddetto “traghettamento” etico, il passaggio, cioè, dall’esperienza vissuta in prima persona (la sfera dell’io) - che non va mai sottovalutata - a quella comunicabile in modo universale (rapporto io-tu), con il risultato di conseguire uno stato di salute e di benessere.Questo permette all’utente della consulenza filosofica di capire che il suo essere non è identico alla situazione di disagio o di conflitto in cui si trova e che questa condizione è una condizione accidentale, che non coincide con la sua identità.

Connessa alla vasta problematica della consulenza filosofica è quella del concetto di volontà, che quasi sempre viene definita come termine in quanto tale.La volontà viene generalmente concepita come un quid che appare nella sfera emotiva e cosciente dell’uomo per indicare una scelta e, nello stesso tempo, come un’astrazione che si perde nel sistema cognitivo umano.
Questo identità tra libertà e volontà deve essere spezzata e ripensata, come ha più volte scritto Guido Traversa, che ha messo tuttavia in luce il ruolo rivestito dalla coscienza in tale meccanismo di interdipendenza.

Per Traversa la libertà non è solo libero arbitrio e volontà. Essa, pur precedendo e rendendo possibile l’arbitrio, cioè la scelta, è anche altro da ciò di cui è condizione.
Prima di una facoltà della sfera emotivo-cosciente dell’uomo, la libertà è la struttura ontologica dell’oggetto stesso su cui cade la scelta della volontà, è la capacità di assecondare, accettare e contemplare una natura che è altro da se stessi.
Il soggetto volente, in quanto libero, non è mai uno, ma è sempre legato con altro da sé.

Giorgio Stillitano

Umbria Jazz Festival 2009


PERUGIA - La trentasettesima edizione dell'«Umbria Jazz Festival» è iniziata venerdì 10 luglio e finirà domenica 19. Noi di Antitesi abbiamo seguito i primi tre giorni dell'evento e l'atmosfera è davvero da «grande festival», con un incredibile numero di visitatori e spirito «da strada». Corso Vannucci, la strada che collega due dei principali palchi - quello di Piazza IV Novembre e quello dei Giardini Carducci - sembra il letto di un fiume umano.

37 anni di storia; 10 giorni di concerto; 9 palchi montati tra arena, teatro, strade, piazze e ristoranti; 7 edizioni con l'Arena Santa Giuliana; 220 eventi, per la maggior parte gratuiti; più di 500 musicisti; 66 Grammy Awards sul palco dell'Arena.

Con questi numeri il capoluogo umbro diventa la capitale del Jazz e viene letteralmente invaso da artisti e turisti, provenienti da tutto il mondo, con il solo scopo di vivere la musica in ogni strada del bellissimo centro storico, dalla mattina fino a notte tarda.

Il programma è sicuramente eclettico: la musica proposta è di diversi generi (dal raffinato pop d'autore alle avanguardie estreme, dall'ortodossia jazz alla musica nera, dai cantautori alle orchestre d'archi) e l'intero evento sembra piuttosto ispirato a distinguere solo tra buona e cattiva musica.

Tantissimi gli artisti di fama internazionale che calcheranno il palco principale, quello dell’Arena di Santa Giuliana: Paolo Conte (il 10), gli Steely Dan (l’11), i Simply Red (il 12), Chick Corea & Stefano Bollani (il 13), Wynton Marsalis con il bambino prodigio Francesco Cafiso (il 14), il sassofonista di James Brown Maceo Parker con uno dei padri fondatori del «soul», Solomon Burke (il 15), Burt Bacharach (il 16), George Benson (il 17), James Taylor (il 18) e «dulcis in fundo» una vera leggenda del blues, il «mitico» B.B. King (il 19).

Come domenica 12 anche oggi, alle ore 18,00, la Juakali Drummers - la famosa e singolare «orchestra di strada» formata da venti ragazzi e ragazze della baraccopoli di Kawanguare, a Nairobi, al suo debutto in Europa - si esibirà al Teatro Bertolt Brecht di Perugia, in viale San Sisto, nel musical “Ngoma Mtaani”, che in lingua swahili significa “il ritmo della baraccopoli”. L'orchestra ha preso vita durante il progetto avviato quattro anni fa nella capitale del Kenya da Amref e Dulcimer Fondation pour la Musique, impegnata nella promozione di forme innovative di educazione musicale.

Le altre sedi del Festival vedranno impegnati altri numeri uno della musica internazionale come Dave Douglas, Bill Frisell, Roy Haynes, Ahmad Jamal, Mingus Dinasty.

Presenti anche molti artisti italiani come Flavio Boltro, Paolo Fresu, Roberto Gatto, Rosario Giuliani, Gabriele Mirabassi, Gino Paoli, Enrico Pieranunzi, Gianluca Petrella ed Enrico Rava .

Inoltre non poteva mancare lo storico e raffinato duo voce e chitarra «Tuck & Patty» che ogni sera, a partire dalle 19:30, si esibisce gratuitamente, in attesa del concerto serale che inizia alle 21:30 all'Arena Santa Giuliana, vero e proprio teatro all'aperto capace di più di 4000 posti dove si svolgono gli spettacoli di maggior richiamo.

Dopo l'ultimo concerto delle 23:30 Corso Vannucci e Piazza IV Novembre si svuotano un po’, ma i più – persone di tutte le età - rimangono fino a mattina. Perugia, infatti, è nota per la vita notturna, complice il gran numero di studenti fuori sede e stranieri presenti in città. Le nottate nel capoluogo umbro trascorrono tra pub, locali vari e all'aperto, in piazza, dove non è difficile assistere ad esibizioni di natura spontanea inscenate da veri e propri artisti di strada o semplicemente da comitive di studenti.

Punti di ritrovo della Perugia «under 30» sono le «scalette del Duomo» a piazza IV Novembre, popolate in questi giorni da migliaia di persone che vanno e vengono, sorseggiando bevande di ogni genere, dai vari localini (spesso poco più di 10 metri quadrati, compra ed esci) adibiti a bar che si trovano in ogni angolo. Tra i locali spiccano il Caffè Morlacchi in piazza Morlacchi, punto di ritrovo di centinaia di ragazzi per l'aperitivo e per il dopocena e Mania (del sosia di A.Celentano, che è facile incontrare) in piazza IV Novembre.

Gennaro Rizzo

sabato 11 luglio 2009

In bocca al lupo Régis


E’ passato poco tempo dal terribile incidente costato la vita al giovane e talentuoso Craig Jones - tragedia occorsa nell’Agosto 2008 a Brands Hatch durante le fasi finali del GP di Inghilterra valevole per il campionato Supersport - e lo spettro della morte è tornato nuovamente ad aleggiare sul mondo del motociclismo.

Fortunatamente Régis Laconi, dopo un’estenuante lotta per la vita, ce l’ha fatta. A circa due mesi dallo spaventoso incidente avvenuto a Kyalami durante le prove libere del GP del Sudafrica della categoria Superbike, il pilota transalpino sembra sulla giusta strada per una riabilitazione completa. Nonostante la comprensibile cautela dei medici, con estrema probabilità il pilota francese potrà tornare a cavalcare la sua Ducati - con i colori del team DFX Corse - entro fine anno.

Un recupero record, considerando la gravità delle ferite riportate nel durissimo impatto. Il centauro di origini sarde, vicecampione della Superbike nel 2004, era caduto il 15 maggio scorso. Un incidente banale, come se ne vedono a decine ogni weekend di gare. Nella scivolata Régis era stato sbalzato dalla moto ed aveva picchiato violentemente il capo sull’asfalto, procurandosi fratture alle vertebre ed un grave trauma cranico. In condizioni preoccupanti, era stato immediatamente trasferito all’ospedale di Johannesburg, dove è rimasto alcuni giorni in coma farmacologico, rischiando seriamente la paralisi per le importanti lesioni alle vertebre cervicali.

In questa occasione abbiamo assistito ad un vero e proprio “happy ending”. Ma ad ogni incidente e scivolata il nostro pensiero non può che correre ai piloti, alle loro famiglie, ai loro amici. Ragazzi di un’umanità e lealtà incredibile, agguerriti in pista, gomito a gomito fino all’ultima curva, ma solidali tra loro una volta scesi dalla sella dei loro potentissimi destrieri. Persone che tra mille sacrifici hanno dedicato tutta una vita alla loro passione.

Il mondo delle corse, però, è spesso traditore. Così, mentre un giorno puoi trovarti a tagliare il traguardo dopo una gara emozionante, combattendo fino all’ultimo centimetro tra gli applausi del pubblico e del tuo team, l’indomani puoi finire in un letto d’ospedale a lottare contro la morte. E magari non farcela. E’ successo a Daijiro Kato a Suzuka, a Fabrizio Meoni durante la Dakar, a Craig Jones a Brands Hatch, e capiterà purtroppo ad altri in futuro. Per quanto si possano innalzare gli standard di sicurezza quello degli sport motoristici - e del motociclismo in particolare - rimane un ambiente pericolosissimo, dove il minimo errore può costare molto caro, a volte persino la vita.

Sarebbe uno sbaglio madornale pensare che i piloti non ne siano consapevoli, quasi fossero degli sconsiderati incoscienti. I centauri, come tutti nell’ambiente, conoscono bene i rischi che correranno in pista. Ma una volta indossato il casco, acceso il motore, abbassata la visiera, come fossero “macchine” perfette, rimuovono ogni pensiero e orientano la loro mente a spingere oltre il limite e raggiungere il miglior risultato possibile.

Ci rimane soltanto una misera soddisfazione, una “vittoria di Pirro”, se pensiamo che in fondo, tutti i piloti che ci hanno purtroppo lasciato sulla pista, sono morti facendo quello che amavano realmente. Correre.

A Régis è andata benissimo e non possiamo che esserne felici. Gli facciamo i nostri più sinceri auguri di guarigione e speriamo possa tornare ad emozionarci al più presto in sella alla sua Ducati 1098.

Alessio Lannutti

venerdì 10 luglio 2009

Il "travestitismo", questo sconosciuto


Alcuni eminenti colleghi criticano la pratica del “travestitismo giornalistico” - prassi attraverso la quale un giornalista nasconde la propria identità ed attività ai suoi interlocutori nel tentativo di favorire i propri personali obiettivi informativi - ritenendola scorretta e poco professionale.

In parole povere, a loro autorevole avviso, il “travestirsi” andrebbe considerato un comportamento eticamente e deontologicamente riprovevole, quasi che per le finalità giornalistiche rilevasse esclusivamente la forma e non la sostanza.

Forse, in un mondo ideale, dovrei cospargermi il capo di cenere e dar loro ragione. Ma nella realtà italiana, dove i fatti svicolano silenziosamente nel sottobosco dell’informazione manipolati da giornalisti “embedded”, servili alla causa del potente di turno, nulla è come appare. La notizia deve soddisfare rigidi criteri selettivi prima di giungere al suo consumatore finale, il lettore/ascoltatore/telespettatore. Se dà fastidio a qualcuno “in alto”, viene letteralmente tralasciata dai principali mezzi d’informazione, se non addirittura alterata ad arte.

Ernest Hemingway scrisse le più grandi pagine di guerra del ’900 rimanendo ben lontano dal fronte e dallo scenario dello sbarco in Normandia. D’altronde il giornalismo ha sempre sconfinato un po’ nella letteratura - giungendo spesso persino a travalicare i limiti della finzione - ma oggi la situazione è giunta ad una paradossale esasperazione.

E’ quindi pleonastico che la pratica del “travestitismo” venga posta in essere da giornalisti tendenzialmente liberi dai condizionamenti dei gruppi editoriali di appartenenza. La finalità ultima di chi fa giornalismo d’inchiesta è proprio la ricerca della verità. Ma fino a che punto si può arrivare per realizzare i propri scopi?

Il fine giustifica i mezzi, diceva qualcuno. Mai espressione fu più azzeccata con riferimento all’essenza dell’attività informativa.

Facciamo un esempio attuale ed elementare. Se avessi interesse a verificare il comportamento di determinate banche in merito alla rinegoziazione dei mutui, sortirei effetti completamente differenti presentandomi nelle filiali come giornalista o - in incognito - come privato cittadino. Nella prima ipotesi la filiale bancaria, consapevole del mio ruolo di giornalista, si mostrerebbe sicuramente rispettosa delle norme del decreto Bersani, ostentando un’artefatta e stucchevole trasparenza nei rapporti con i cittadini. Soltanto nella seconda ipotesi si scoprirebbe il reale contegno dell’istituto di credito nei riguardi dei propri clienti.

Se per svelare la verità è davvero necessario ricorrere al “travestitismo”, celare la propria identità, utilizzare metodi resi famosi da trasmissioni come “Report”, ma anche come “Le Iene” e “Striscia la Notizia”, probabilmente, a livello di categoria professionale, dovremmo tutti fare ammenda e provare a scendere un attimo dal piedistallo.

Se oggi veniamo a conoscenza di molti fatti e tematiche scottanti, lo dobbiamo esclusivamente a quei colleghi, razza purtroppo in via d’estinzione, che praticano il giornalismo d’inchiesta. Magari ripagati dal potere politico ed economico - come è purtroppo accaduto a Milena Gabanelli, una delle poche giornaliste che tentano di assolvere realmente alla funzione informativa, deferita al comitato etico della Rai - con sospensioni, denunce, pubbliche gogne (mediatiche).

La realtà è che oggi, in Italia, si avvicina più all’attività giornalistica vera e propria quella svolta da trasmissioni satiriche e d’intrattenimento, che l’arida lettura di agenzie di stampa - filtrate e rielaborate all’occorrenza per nascondere eventuali contenuti pregiudizievoli per i poteri forti - proposta dai principali telegiornali.

Poco importa che Gabibbo & Capitan Ventosa abbiano scarsa dignità professionale e sviliscano l’attività informativa, quando offrono un servizio giornalistico vero, denunciano soprusi e disservizi, scoprono truffe, smascherano delinquenti, forniscono nella pratica un aiuto materiale e tangibile ai cittadini. Forse, un domani, per recuperare credibilità e liberarci dall’etichetta di servi dei potenti e delle lobby, paradossalmente dovremo proprio nascondere la nostra identità o mettere uno sturalavandini in testa.

Alessio Lannutti

lunedì 6 luglio 2009

Politica & Internet: un megafono senza voce


Nel passato quando si aveva bisogno di visibilità, il metodo migliore era quello di acquistare spazi sulla carta stampata. Con l’evolvere delle tecnologie si è iniziato ad utilizzare spazi radiofonici, per finire con quelli televisivi, pagando cifre esorbitanti. Nel 2009 il mezzo più usato è senza dubbio internet, dove con pochi euro ogni anno ognuno di noi può ottenere un posto dove far sentire la propria voce. Il bacino di utenza è potenzialmente globale.

Il web offre numerosi servizi che possono essere utilizzati praticamente ovunque, è quindi ovvia e scontata la potenza di internet. Ci siamo posti questa semplice domanda: i maggiori partiti italiani come sfruttano queste potenzialità?

La domanda non è banale, forum tematici, blog e siti riprendono e analizzano i temi politici quotidianamente, ma solo una piccola parte di essi è gestita dai maggiori partiti italiani.

Visitando il web ci siamo accorti della differenza tra un sito “bello” ed uno di informazione.

Il sito del PDL ne è un esempio. Si presenta molto bene: fluidità e style ne sono padroni. Le informazioni sono completamente assenti così come gli approfondimenti politici, regnano invece elenchi dei gruppi dirigenti ed i resoconti sull’operato dei precedenti governi.

Quello del PD tratta sporadicamente alcune tematiche di attualità a scapito della facilità di navigazione, risulta complicato reperire informazioni, così da non rendere chiara la linea del partito ed i lavori parlamentari.

Dei partiti minori differiscono per stile di informazione, Lega Nord, La Destra e Rifondazione Comunista dove gli articoli di approfondimento lasciano spazio solamente a banner e manifesti.

I Verdi non usufruiscono del mezzo per comunicare ma si limitano ad elencare i vari siti delle federazioni.

Agli antipodi troviamo i siti web dell’UDC e di Forza Nuova: lasciano molto spazio alla voce dei propri esponenti, che affrontano giornalmente le varie tematiche nei loro articoli.

Anche il sito dell’Italia dei Valori, in puro stile blog, sembra particolarmente propenso all’informazione sui lavori dei parlamentari ed all’interazione con il proprio elettorato.

Il confronto tra il sito dei Giovani Democratici e quello di Azione Giovani è vinto da quest’ultimo. Mentre il sito dei GD viene aggiornato sporadicamente, quello di AG risulta ricco di informazioni e contenuti.

Circoli e sezioni territoriali si dividono in due categorie: chi ne fa largo uso e chi ne è completamente sprovvisto. Lo stampo ovviamente è di tipo locale e molto spesso sono assenti i temi nazionali, affrontati dai siti principali. In tempi di elezioni proliferano siti temporanei che dopo aver esaurito il loro compito di vetrina vengono chiusi o abbandonati. Questo vuoto è colmato dai singoli - politici e non - che gestiscono uno spazio dove raccontano e commentano l’attualità italiana.

Le considerazioni sono desolanti: i partiti principali riconoscono il web come mezzo importante e potente, ma usandolo in modo scadente e poco continuativo. Delegano indirettamente alla voce dei singoli l’approfondimento politico. Obama ha vinto le elezioni facendo un grande uso di questa piattaforma, conquistando il consenso degli utenti della rete. Visto il dilagare dell’antipolitica soprattutto fra i più giovani - che sono i maggiori fruitori del web - perché non avvicinarli spiegando i propri progetti?

Enrico Brunetti

Riforma Alfano: il praticantato nuoce gravemente alla salute


Come accade per i pacchetti delle sigarette, anche la riforma dell’avvocatura a cui lavora con dedizione il ministro della Giustizia dovrebbe riportare sul frontespizio l’avvertenza circa gli effetti nefasti che comporta il suo utilizzo e la sua applicazione. Una riforma molto pubblicizzata nell’ultimo anno, dove si parla di decoro della professione, di formazione continua, di tutela del consumatore e soprattutto di selezione degli aspiranti avvocati nel percorso post-universitario. Si dice, e può essere, che gli avvocati in Italia siano troppi.

A fronte di ciò il governo, su ispirazione del Consiglio Nazionale Forense, ritiene opportuno intervenire sull’accesso alla professione: scuole di specializzazione obbligatorie e a numero chiuso durante il periodo di praticantato; test d’ingresso all’esame di stato ed esami più duri, vietando ad esempio l’uso dei codici commentati durante le prove scritte. Qualcuno con una punta d’astio ha suggerito che per diminuire il numero degli avvocati basterebbe mandare in pensione tutti gli avvocati che hanno superato i 65 anni. Quello che stupisce veramente resta però l’assoluta mancanza, in quella che viene annunciata come una riforma epocale, di attenzione ad uno degli aspetti più deviati dell’attuale sistema dell’avvocatura italiana: la sostenibilità e i tempi di accesso alla professione.

Se infatti il tempo di svolgimento della pratica resterebbe invariato, alla normale attività di studio già oggi obbligatoria, si affiancherebbe l’obbligatoria frequenza di corsi di specializzazione a pagamento. Chiaramente si tratterebbe di un percorso formativo che metterebbe il praticante in perdita economica netta. In tutto ciò soltanto chi fosse in possesso di un reddito “esterno”, familiare o altro, potrebbe quindi svolgere il percorso verso l’abilitazione. Ciò restringerebbe alla “casta” degli avvocati, discendenti e pochi altri eletti la possibilità di aspirare all’abilitazione e all’esercizio della professione. Un tale sistema azzererebbe la mobilità sociale nella professione e conseguentemente diminuirebbe la qualità del servizio, rendendo fittizia la concorrenza e impedendo alle migliori giovani risorse di emergere. In un settore strategico come quello dei servizi legali tutto questo nuocerebbe alla salute sociale ed economica delle nuove generazioni, come nuocerebbe alla salute di un paese vittima del declino demografico, che non può permettersi di sbattere la porta in faccia alle nuove generazioni. Ci sono molti aspetti della riforma della professione di avvocato che rispecchiano quello che sembra un pensiero chiaro ed imperante per una certa parte del paese: tagliare sull’istruzione pubblica, tagliare sulla ricerca, glissare sul precariato e sui problemi dell’accesso al lavoro, sostenere le lobby e soprattutto sorridere e sembrare efficienti. La crisi non esiste e il governo lavora bene. Se si riduce drasticamente il numero degli accessi in pochi anni il risultato della diminuzione del numero di avvocati sarà raggiunto. Poco importa delle future conseguenze sociali ed economiche di tutto ciò. Oggi si è al governo, domani chissà.

Le alternative proposte dall’opposizione parlamentare sono però purtroppo deboli e tendenzialmente allineate, e in alcuni casi addirittura peggiori della proposta governativa, come l’idea di portare il praticantato da 24 a 36 mesi. Si tratta di un atteggiamento di basso profilo basato sull’accordo tra poteri forti. Va bene all’Ordine degli Avvocati, va bene al Governo, alla fine va bene anche all’opposizione, allora si può dire che è fatta. Una riforma delle grandi intese, politiche e lobbistiche.

Eppure in questi mesi di discussione attorno alla riforma qualcosa si è mosso. Un appello lanciato a livello nazionale ha visto l’adesione di studenti, praticanti e avvocati provenienti da molte città italiane. L’appello non chiede la conservazione dello status quo, ma l’instaurazione di un sistema nuovo che guardi alle pari opportunità e all’accorciamento dei tempi d’ingresso alla professione. La necessità di inserire una parte del percorso formativo all’interno di quello universitario, ormai definitivamente passato da quattro a cinque anni, è una delle richieste più forti. Se si guarda agli standard europei la situazione italiana a riguardo è a dir poco anomala, come anomala è la mancanza pressoché totale di sostegni ai più meritevoli nel percorso formativo post-universitario. Se poi si aggiunge che la riforma ritorna quasi completamente sui passi fatti in avanti nella liberalizzazione della professione, il cerchio si chiude. Si tratta di una riforma che mira alla conservazione e alla radicalizzazione del sistema attuale, con i noti metodi della cooptazione e della instabilità perpetua di cui vittime sono le generazioni presenti e future.

La reazione a tutto ciò non può essere che di rottura. Nell’opinione della politica attuale la riforma passerà, forse non subito, ma passerà. Rimane la possibilità di ascoltare le organizzazioni politiche giovanili, i sindacati e le associazioni. Firmatari dell’appello contro la riforma sono stati sia gli Studenti Democratici e i Giovani Democratici di tutta Italia che la CGIL- Filcams. Il da farsi sembra chiaro: presentare una proposta alternativa che possa essere supportata da una sottoscrizione popolare che metta all’attenzione dei parlamentari e dell’opinione pubblica nazionale la questione dell’accesso al futuro. L’attuale proposta Alfano per l’avvocatura sembra infatti solo attualizzare in un campo specifico le problematiche proprie dell’intero mercato del lavoro. L’abbattimento dell’università pubblica e dello stato sociale presto farà le prime vittime, come già le sta già facendo; e a cadere per primi sono sempre i più deboli, economicamente e socialmente, ovvero le nuove generazioni con sempre meno spazi e possibilità.

Questa riforma nuoce gravemente alla salute della giustizia e dell’avvocatura italiana, come alle aspirazioni degli studenti e dei praticanti. La sfida sarà nel convincere i parlamentari e il governo a smettere.

Julian Gareth Colabello

venerdì 3 luglio 2009

Grandi affari: supermarket in Iraq


Nelle vicende internazionali è sempre complesso distinguere tra cause e conseguenze. Il principio cronologico non si rivela utile nella ricerca, se non da un punto di vista causale strettamente materiale. Assegnare ai grandi affari in corso in Iraq lo status di conseguenza di una qualche vicenda internazionale sembrerebbe estremamente difficile, se non addirittura impossibile. Eppure, gli accadimenti degli ultimi tempi portano a smentire quanto affermato finora.

Premesso che quando si fanno affari, grandi affari, c'è sempre una parte che guadagna ed un'altra che perde, «in Iraq c'è da ricostruire tutto, assolutamente tutto». Così si esprimeva Nicolas Sarkozy al termine della sua visita lampo compiuta a Baghdad lo scorso 10 febbraio.

Nelle parole di Sarkozy era chiaro e lapidario l'implicito invito alle aziende francesi a mettersi in corsa per partecipare al grande business della ricostruzione irachena.

Bene, la grande corsa è partita. Il 2 luglio 2009, dopo settimane preparazione (per non lasciare nulla al caso), è giunta a Baghdad una selezionata delegazione di imprenditori francesi guidata dal Primo Ministro François Fillon e dal ministro dell'Economia Christine Lagarde. Altra missione lampo, per esigenze di sicurezza, rimasta segreta fino all'ultimo. L'aereo con Fillon e la delegazione è partito a mezzanotte da Parigi, all'alba di ieri ha fatto scalo ad Amman, quindi il viaggio è proseguito verso Baghdad a bordo di un Hercules C-130 dell'aeronautica francese.

Con il Primo Ministro e Christine Lagarde hanno viaggiato undici «big» dell'economia transalpina, come Laurence Parisot (la «patronne» di Medef, la Confindustria francese), Christophe de Margerie (Total), Louis Gallois (Eads, cioè industria aerospaziale ed Airbus), Henri Lachmann (Scheider, energia), Bruno Lafont (Lafarge, costruzioni), Henri Proglio (Veolia, servizi ambientali e gestione delle acque), Michèle Lamarche (in rappresentanza della banca d'affari Fratelli Lazard). Fillon ha incontrato a Baghdad il premier Nuri al-Maliki, poi è volato a Sulaimaniya per un colloquio con il presidente del Kurdistan iracheno Jalal Talabani [Mas’ud Barzani NdR].

Tra gli accordi firmati ieri, uno riguarda il settore del credito ed un altro la formazione di ingegneri.

Ma la cooperazione franco-irachena è promettente in molti settori, compreso - ovviamente - quello militare. Il maggio scorso una delegazione era arrivata a Baghdad da Parigi per concludere accordi con gli iracheni. L'Iraq ha acquistato 24 aerei da trasporto, ma sono sul tavolo delle trattative anche acquisti di elicotteri e di altri armamenti. In quella occasione i membri della missione francese si erano lamentati della presenza di militari americani durante tutti i colloqui ufficiali. Ora invece la visita della delegazione francese in Iraq avviene, con singolare tempismo, a sole 48 ore di distanza dal ritiro dell'esercito americano dalle principali città irachene. Finora la ritirata dell'esercito Usa dai centri urbani non sembra aver scatenato la temuta ondata di violenza. C'è invece grande fermento nel settore economico.

Il 1° luglio il governo iracheno ha indetto una grande asta pubblica per assegnare lo sfruttamento di otto giacimenti di petrolio e gas. Una gara d’appalto petrolifera in diretta televisiva per garantire la «trasparenza». In una camera d'albergo della superprotetta Green Zone di Baghdad si sono presentate alla gara 31 compagnie straniere (fra cui l'italiana ENI), ma alla fine è stato assegnato un solo appalto per gestire i pozzi petroliferi di Rumaila, nel sud dell'Iraq, che avrebbero una riserva stimata in oltre 17 miliardi di barili. L'appalto se lo è aggiudicato un consorzio formato dalla britannica BP insieme ai cinesi della CNPC International. BP e CNPC sono le uniche compagnie petrolifere straniere che andranno a lavorare in Iraq, almeno per il momento. Gli altri appalti non sono stati assegnati ufficialmente perché gli iracheni non hanno soddisfatto le richieste delle multinazionali, che si sono dichiarate deluse dai termini dell'operazione, ma il clima nel substrato sociale è piuttosto quello delineato dai lavoratori iracheni che il 25 giugno 2009 ribadiscono: «le compagnie petrolifere internazionali non firmino i contratti relativi ai giacimenti offerti nel primo round di gare d’appalto, perché questi contratti sono illegali».

L’avvertimento, a pochi giorni dalla conclusione delle gare, arriva dal sindacato iracheno dei lavoratori del petrolio, che definisce questo primo round “una vera catastrofe”, dato che riguarda i giacimenti “enormi e strategici” che sono il cuore dell’economia irachena.

Si è perciò parlato di un fallimento, ma ieri, durante la conferenza stampa con Fillon, il premier iracheno al-Maliki ha respinto le accuse e ha affermato diplomaticamente: «Non si è trattato di un fallimento, bensì è stato un round dove alcuni hanno avuto successo e altri no». «L'Iraq guarda i suoi interessi da un'angolatura particolare», ha aggiunto, «diversa dall'angolatura da cui le compagnie straniere guardano i loro interessi».

Presto si terrà un nuovo round delle gare di appalto. Ne resta fuori il destino del giacimento di Nassiriya, per il quale sono in corsa l'ENI, i giapponesi di Nippon Oil, e gli spagnoli della Repsol. La decisione del governo iracheno sul giacimento di Nassiriya potrebbe essere vicina: il ministro iracheno del Petrolio, Hussein al Shahristani, ha detto alla Reuters che la compagnia alla quale andrà il contratto è stata scelta, ora il nullaosta finale spetta al Consiglio dei ministri. Quale sia questa compagnia Shahristani non ha voluto dirlo.

Gennaro Rizzo