mercoledì 16 settembre 2009

Il futuro dei giovani? Nascosto!!!


Si parla tanto di precariato, disoccupazione giovanile, laureati in cerca perenne di un posto di lavoro fisso che permetta di farsi una famiglia e delle certezze. Tante parole dei politici, tanti studi degli economisti e numeri degli statistici, ma mai si cerca di focalizzare l’attenzione sul disagio vissuto a fondo dalle giovani generazioni che pur con titoli di studi in tasca di alto livello e tante speranze sono messi di fronte ad una difficile realtà fatta di illusioni, invii infiniti di curricula e poche certezze.

A fotografare il travagliato percorso giovanile dal mondo universitario a quello lavorativo ci ha pensato Antonio Sangineto, regista della Rai e collaboratore per anni di Mario Monicelli, che nel suo romanzo di esordio ha voluto descrivere i sogni, le ambizioni e le tante delusioni di un giovane neo laureato dal futuro però incerto o meglio come recita il titolo del romanzo nascosto.

“Il Futuro Nascosto” è infatti uno dei pochi romanzi che cerca di dare voce al disagio giovanile attraverso la storia di Zerach, un ragazzo come tanti, sveglio, intelligente, ironico. Laureatosi, s’affaccia al mondo in cerca di un lavoro, scontrandosi subito con una realtà ostile e beffarda che fa a pezzi sogni di carriera e sogni d’amore, in una capitale Roma troppo grande e piena di vinti.

Un romanzo di grande attualità dove oltre a narrare le difficoltà di trovare un lavoro dopo la laurea, l’impossibilità delle giovani coppie di concretizzare i loro rapporti si mettono alla luce alcuni aspetti di grande impatto sull’opinione pubblica come il clientelarismo e le raccomandazioni contro il vero valore delle persone o la ricerca di una società diversa dove si possano riscoprire valori ormai perduti come quello della vera amicizia.

L’autore Antonio Sangineto ha rilasciato per Antitesi un’intervista che vuole essere un dialogo con lo scrittore per capire alcuni aspetti del romanzo, di cui vi invitiamo alla lettura.

Da cosa ha preso spunto per scrivere questo romanzo? Da una sua constatazione delle realtà o magari da dirette esperienze familiari?

Personalmente ho sempre avuto un background cinematografico visto i miei studi universitari su Pasolini e sulla sua lettura letteraria e filmica della realtà e dopo l’ennesima bocciatura di una mia sceneggiatura ho sentito il bisogno di riattivare quel mondo poetico pasoliniano che ha ispirato anche il mio modo di essere. Proprio dopo aver saputo del mancato finanziamento del mio film (dal titolo “30 e loro” ndr) ho incontrato sotto casa un signore, che di mestiere faceva il barbiere, che era riuscito ad ottenere un finanziamento di ben 370 mila euro per un documentario e da lì ho capito che dovevo dare un senso a tutto il lavoro che avevo fatto fino ad allora. Ho iniziato a girovagare nei quartieri di Roma che conoscevo poco e in cui Pasolini aveva ambientato i suoi romanzi più famosi e allora tornando a casa ho deciso di scrivere il mio romanzo “Il Futuro Nascosto”. Mi sono subito chiesto quale stile dare al romanzo e ho immaginato che l’imput doveva essere come un ruscello per far sì che la stesura e la lettura fossero fluide e così ho potuto affrontare le problematiche sociali, la caduta dei valori per cui le persone valgono più per quello che hanno che per quello che sono. I miei personaggi sono delle sfaccettature della società, delle varie forme di emarginazione e dei drammi esistenziali.

Raramente in film e libri si parla delle difficoltà delle giovani generazioni ad aprirsi al mondo del lavoro e rari sono coloro che hanno affrontato la tematica: mi viene in mente Paolo Virzì con il suo film “Tutta la vita davanti” o Simone Cristicchi con la sua canzone “Laureata precaria”. Come mai questa reticenza nei confronti di un tema sociale così rilevante?

Ormai la cultura è spesso omologata alla televisione così come il cinema e la letteratura, se si affrontano tematiche sociali lo si fa per demagogia sociale. Toccare il tema del precariato giovanile vuol dire toccare un nervo scoperto della società, la mia è stata una reazione culturale visto, come descrivo nel mio romanzo, c’è un nepotismo che blocca il talento e la genialità e si sfrutta la gente. La vera cultura non c’è più, non abbiamo più un Moravia o un Pasolini, si fa spesso demagogia culturale cerando delle affermazioni sociali individuali.

Il futuro nascosto: è nascosto perché è coperto da qualcosa che lo nasconde o è nascosto perché non c’è nulla e bisogna dare modo di costruirlo e fornire gli strumenti per porlo in essere?

Il futuro di per sé è nascosto; mi sono reso conto che qualunque giovane che sceglieva per se un determinato indirizzo di vita poi si scontrava contro chi questi spazi li gestiva e sbarrava l’ingresso. Le responsabilità in questo caso anche politiche sono di tutte le forze, nessuna esclusa. Le responsabilità vanno condivise in quanto si guarda al solo interesse personale, mancando la percezione delle motivazioni di un interesse generale.

Se dovesse incontrare un politico, che ha in mano gli strumenti per cambiare la situazione sociale descritta nel suo romanzo, cosa gli direbbe?

Non gli direi nulla, non mi capirebbe e mi riderebbe in faccia. Non ci parlerei, non avrei nulla da dire poiché sarebbe come parlare al vento. In Italia non abbiamo un Obama con cui sperare di cambiare le cose. Rimango convinto di una convinzione, che mi fa sperare che il mio lavoro non sia del tutto inutile. Credo che i pensieri sono come polline che attecchisce e arriva alla gente e come diceva Stendhal “un romanzo è uno specchio che percorre una strada maestra. A volte riflette l'azzurro del cielo, a volte il fango delle pozzanghere.”, che è quello che ho cercato di rappresentare con la vita di Zerach nel mio romanzo.

Francesca Ragno

mercoledì 2 settembre 2009

Quando la "libertà" è affascinata dalla dittatura


La politica estera è rappresentata dalle relazioni internazionali intrattenute reciprocamente dai governi dei vari Stati. Molto spesso, è specchio dei rapporti di convenienza esistenti tra i paesi stessi. L’Italia, storicamente - a differenza di altre nazioni europee - non si è mai trovata in una situazione di equiordinazione con le altre grandi realtà internazionali. Esempio lampante è la sudditanza nei riguardi degli Stati Uniti d’America, eredità delle vicende del secondo conflitto mondiale. Tale situazione di subordinazione, determinata in gran parte dalla riconoscenza del popolo italiano per il piano Marshall, è cresciuta esponenzialmente con il passare del tempo.

Il nostro momento più alto sul piano internazionale risale al periodo del governo Craxi - personaggio senza ombra di dubbio negativo per la nostra nazione (e grande amico di Muhammar Gheddafi, di cui parleremo più avanti, che gli deve addirittura la vita) - nell’episodio della “crisi di Sigonella”, forse prima vera circostanza nella quale lo Stato italiano impose con fermezza la propria sovranità agli USA. Da quel momento in poi iniziò la fase discendente della politica estera italiana, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Mai era capitato negli anni che il nostro paese subisse un vero e proprio ricatto da uno Stato canaglia. Ebbene sì, il caro governo delle “libertà” (libertà forse intese con riguardo ai costumi sessuali dei suoi esponenti, viste le vicende degli ultimi tempi) dopo averci mostrato da vicino come è fatto un dittatore - ovviamente con lampanti finalità pedagogiche - invitando il leader libico Muhammar Gheddafi a Roma in giugno, dopo aver concluso accordi capestro con la Libia in materia di contrasto all’immigrazione clandestina (quando sarebbe stato più semplice ed economico istituire in Italia la zona contigua), ha deciso di confermare la visita a Tripoli del Presidente del Consiglio a pochissimi giorni dalla liberazione da parte delle autorità scozzesi dell’attentatore di Lockerbie. Al-Megrahi, ormai malato terminale, è stato festeggiato al rientro in Libia come un eroe. Scene disgustose, accolte con sdegno in ogni angolo del globo, ma non in Italia. Roba da rimpiangere la politica estera “cowboy” di Ronald Reagan.

Gheddafi è un dittatorucolo da quattro soldi, terrorista, nemico della democrazia, presuntuoso, spaccone e arrogante. Per di più ha un pessimo gusto nel vestire: ha circa 70 anni e gira ancora agghindato come il Michael Jackson del periodo di Thriller e di Bad. A Roma si è presentato con atteggiamenti da padrone di casa, portando sul petto la foto di un eroe anti-italiano del periodo post-coloniale. Ha fatto le solite quattro sparate da bullo e prontamente gli esponenti politici che lo ospitavano sono stati costretti a dissociarsi. Dopo la contestata visita all’Università della Sapienza, ha chiesto addirittura - senza successo - di parlare alla gente dalla balconata di Piazza Venezia. Fortunatamente, qualche parlamentare di buon senso, fra le polemiche generali della maggioranza, è riuscito ad impedire che il colonnello tenesse il discorso programmato nell’aula del Senato. Sarebbe stata la morte della democrazia italiana. Per carità di Dio, fosse venuto in visita il comunista Castro qualche parlamentare del Pdl si sarebbe incatenato in Piazza Colonna, ma Gheddafi, in quanto compagno di merende del nostro premier, non si tocca.

Berlusconi si è persino scusato con la Libia per gli anni del dominio coloniale. Personalmente non riteniamo che l’Italia debba scusarsi per azioni poste in essere oltre mezzo secolo fa da una dittatura che opprimeva e teneva in giogo il nostro paese, prima ancora della Libia. Senza tenere poi conto delle rappresaglie libiche degli anni successivi nei confronti dei cittadini italiani. Le scuse, peraltro, andrebbero fatte alle popolazioni vessate, non ad un dittatore che si permette di giustificare il terrorismo internazionale e che indottrina i suoi successori all’odio verso l’occidente. I parenti di Gheddafi infatti non sono da meno: uno dei figli, trattenuto qualche tempo fa dalle autorità svizzere, aveva auspicato la cancellazione della Confederazione Elvetica dalle cartine geografiche. Assurdo.

I rapporti con la Libia, purtroppo, sono questi. Oggi gli accordi sono siglati ed il nostro paese è costretto a rispettarli (nella vana speranza che la controparte faccia altrettanto). Pattugliamento congiunto, dicono loro. In realtà l’Italia si impegna a costruire infrastrutture nel paese africano e fornisce motovedette ai libici, che loro utilizzano per finalità personali - come ad esempio fermare i pescherecci italiani in acque internazionali, in barba alle più elementari norme di diritto internazionale - non certo per impedire l’esodo degli immigrati clandestini verso le nostre coste, grosso affare per molti schiavisti di quelle parti.

Proprio adesso, nel momento in cui le relazioni internazionali tra Libia e comunità internazionale sono (giustamente) ai minimi storici per il caso Al-Megrahi - sembra proprio che quest’estate la giustizia abbia deciso di abdicare, visto il trend di liberare terroristi sanguinari: Fioravanti docet - il nostro Presidente del Consiglio ha deciso di non rinunciare alla visita a Tripoli. Ciò non bastasse, il Ministero della Difesa ha gentilmente offerto (tanto paga Pantalone) un’esibizione delle Frecce Tricolori in occasione dei 40 anni di governo (o dittatura, il nostro non si offenderà di certo) del colonnello Muhammar Gheddafi. Di tutta risposta le autorità libiche hanno richiesto all’Aeronautica Militare Italiana l’utilizzo di fumogeni verdi in luogo di quelli classici tricolore. Al secco diniego ricevuto, hanno risposto osteggiando le esercitazioni della nostra pattuglia acrobatica.

Gheddafi o meno, possiamo affermare senza alcun timore di essere smentiti che la politica estera italiana - a differenza di quanto vogliono farci credere i propagandisti della maggioranza - con il governo Berlusconi III ha veramente toccato il fondo del barile.

Alessio Lannutti