venerdì 28 ottobre 2011

Ciao "Super Sic", campione di umanità


Ai giorni nostri siamo abituati a dipingere la realtà che ci circonda attraverso degli stereotipi. E’ la società moderna, con i suoi stili di vita frenetici e la sua assurda tendenza alla semplificazione, che ce lo impone. In questo modo, un atleta professionista viene considerato dall’opinione pubblica alla stregua di un entità sovrumana, un superuomo distante anni luce dagli altri comuni mortali.

Certi sportivi, nell’immaginario collettivo, si è portati a rappresentarli così. Spocchiosi con il prossimo, un po’ megalomani, sempre con la puzza sotto il naso, in qualche caso nevrastenici. In parole povere, delle vere e proprie primedonne.

Nella maggior parte dei casi, una rappresentazione di questo tipo potrebbe fornire un profilo abbastanza rispondente a verità del campione sportivo medio. La descrizione appena fatta, è indubbio, calza a pennello per molte stelle dello sport che invadono le prime pagine delle riviste di settore.

Eppure, fortunatamente, esistono piacevolissime eccezioni. Tra i tanti assi che popolano l’olimpo delle competizioni sportive possiamo ancora trovare persone normalissime, talmente lineari da riuscire a confondersi in mezzo alla gente ordinaria con assoluta naturalezza. Marco Simoncelli ne era l’esempio emblematico. Bastava osservarlo, in pista, ai box o nei quadretti di vita quotidiana che spesso regalava ai telespettatori del motomondiale, per comprendere un’importante lezione: a generalizzare si sbaglia sempre.

Considerare un atleta esclusivamente per le sue doti sportive, facendo passare le qualità umane in secondo piano, è un altro grave errore. Molti fan pensano di sapere tutto dei propri beniamini limitandosi ad un'attenta analisi delle loro prestazioni, quando in realtà, così facendo, si fermano soltanto all’apparenza. Non bisogna mai dimenticare che anche i campioni dello sport sono esseri umani come tutti gli altri. Così, può anche accadere che la stella di una determinata disciplina sportiva sia soprattutto una persona semplice, cordiale, alla mano, nella vita di tutti i giorni.  

Domenica 23 ottobre 2011 il destino ha portato via da questo mondo il nostro “Sic”, che adesso continuerà la sua corsa chissà dove. Dovrei parlare dei fatti, del terribile incidente di Sepang, di quella scivolata che ha strappato un ragazzo di 24 anni all’affetto dei suoi cari, eppure non lo farò. Preferisco ricordare chi era Marco Simoncelli, in pista e fuori. Il motociclismo, come gli altri sport motoristici, presenta e presenterà sempre dei rischi. Appena un anno fa, a Misano, moriva il giapponese Shoya Tomizawa. Pochi giorni prima del Gran Premio della Malesia, il britannico Dan Wheldon ha perso la vita a Las Vegas durante una corsa di IndyCar. Questi episodi dimostrano lapidariamente che il pericolo fa parte del mestiere di pilota.
 
Se Valentino Rossi, per rimanere in tema di due ruote, è stato ed è tuttora un campione popolare, capace di mettere d’accordo milioni di italiani, Marco Simoncelli, con la sua naturalezza, veracità e simpatia, ci aveva conquistati tutti. “Sic” incarna il classico esempio del ragazzo della porta accanto che ce l’ha fatta a realizzarsi nella vita. Per questo ci mancherà. Nel suo sguardo c’era tutta l’umiltà di chi, nell’inseguire un sogno, era riuscito a raggiungerlo e persino a superarlo, senza mai perdere il contatto con la realtà. Il talento di Marco, infatti, era eguagliato soltanto dalla sua incredibile umanità.

Simoncelli, che ha rappresentato una ventata di freschezza nel circus del motomondiale, è un modello da seguire per tutti i giovani, l’esatto opposto degli atleti stereotipati, intrattabili e pieni di sé, ai quali la televisione ci ha ormai abituati da tempo. Avulso da fenomeni di divismo, era un ragazzo genuino, vero, sincero. Un campione del popolo, forse proprio perché tutti potevano immedesimarsi in lui.

Se in queste ore l'Italia intera si ritrova a piangere la scomparsa del giovane centauro emiliano il motivo è semplice. Non era necessario trovarsi di fronte a Marco, faccia a faccia, per conoscerlo veramente. Era sufficiente guardare i suoi occhi, ascoltare le sue parole, anche attraverso uno schermo televisivo posizionato a migliaia di chilometri di distanza, per capire davvero chi fosse. La sua umanità si percepiva dalle piccole cose, dai comportamenti di tutti i giorni, dai suoi sorrisi.

L’atmosfera distesa e composta che ha fatto da cornice al funerale di Coriano vale più di qualsiasi altra cosa. Marco Simoncelli era un giovane come tanti altri, morto facendo ciò che gli piaceva veramente. Nonostante i successi nelle competizioni sportive e l’indiscutibile talento ha sempre mantenuto i piedi per terra, è sempre rimasto legato alla sua terra, alla sua famiglia ed alle sue tradizioni. Cosa più importante, non ha mai smesso di dire ciò che pensava nella maniera più chiara e diretta possibile.

Non conoscevo personalmente Marco Simoncelli. Lo stesso discorso vale per la maggior parte delle persone che oggi sono addolorate per la sua scomparsa. Tuttavia, in un certo modo, si può dire che tutti quanti, nel giorno dell’ultimo saluto, hanno compreso pienamente la filosofia di “Super Sic”, come se lo avessero frequentato per una vita intera.

Anche adesso che la sua Honda con il numero 58 non è più sullo schieramento di partenza della MotoGP, il “Sic” continua a sfrecciare nei ricordi di tutti gli appassionati. Con la consapevolezza che nella vita, come nel motociclismo, può succedere di tutto. A volte si cade, senza riuscire a rialzarsi. Fa parte del gioco. E se capita di scivolare, proprio mentre stiamo facendo quello che abbiamo sempre amato, l’impatto magari può avere un sapore meno amaro.

La morte di Marco ha lasciato un piccolo grande vuoto in ognuno di noi, è indiscutibile. Eppure, quando la sua simpatica sagoma, con gli inconfondibili capelloni, appare sugli schermi delle nostre case in qualche immagine di repertorio, “Sic” riesce comunque a strapparci un sorriso. Sappiamo che non fa più parte di questo mondo, dovremmo essere tutti molto affranti, eppure Marco riesce lo stesso a renderci felici. Sta qui la sua incredibile forza.

Un personaggio come Simoncelli, nella sua genuina spontaneità, ha contribuito ad avvicinare parecchie persone al mondo del motociclismo, dimostrando che un campione non deve essere necessariamente un personaggio inarrivabile per le persone comuni. Questo la gente non può e non deve dimenticarlo.

Ciao Marco, anche se la maggior parte di noi non ha mai avuto la fortuna di conoscerti personalmente, resterai per sempre nel cuore di tutti gli italiani.

Alessio Lannutti

sabato 8 ottobre 2011

La sconfitta della giustizia italiana


Il secondo (e probabilmente ultimo) atto di uno dei processi mediatici più controversi degli ultimi anni volge finalmente al termine. La Corte d’Assise d’appello di Perugia, con una mossa che in molti si aspettavano, ha deciso di ribaltare il verdetto di primo grado nei confronti di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. I due giovani, che nel 2009 erano stati condannati rispettivamente a 26 e 25 anni di reclusione per l’omicidio di Meredith Kercher, sono stati assolti per non aver commesso il fatto.

Quella di oggi è una sconfitta per il nostro sistema giudiziario. Senza entrare nel merito della decisione dei giudici del capoluogo umbro, che può essere condivisa o meno, si rende assolutamente necessaria una riflessione più ampia. La giurisdizione penale non è perfetta, sarebbe utopistico sostenere il contrario. Probabilmente, in un mondo ideale, i processi sarebbero rapidi, giusti ed equi. I colpevoli verrebbero assicurati alla giustizia, mentre gli innocenti scagionati. Il sistema giudiziario, tuttavia, è quanto di più distante esista da questo modello etereo ed immaginifico. È una realtà fatta di uomini, che, in quanto tali, sono fisiologicamente indotti a commettere degli errori.

Nel corso delle indagini sul delitto di Perugia, di sbagli ne sono stati commessi tanti. Troppi. Gran parte della responsabilità per la situazione di incertezza che si è venuta a creare oggi va attribuita agli inquirenti. Gli investigatori incaricati di portare avanti le indagini non hanno saputo proteggere né valorizzare le prove in loro possesso. Si è quindi arrivati ad un processo indiziario nel corso del quale ogni certezza è venuta meno. L’abilità degli avvocati difensori - e se Amanda e Raffaele oggi sono liberi devono ringraziare soprattutto Carlo Dalla Vedova e Giulia Bongiorno, i rispettivi legali - è stata sufficiente a far crollare il castello accusatorio costruito dalla Procura di Perugia.

Se è vero che non si può condannare qualcuno ad una vita in carcere basandosi esclusivamente su sospetti ed indizi, per quanto convincenti possano essere, è altrettanto vera un’altra particolare circostanza: l’opinione pubblica ha nutrito dubbi nei confronti dei due studenti fin dal principio degli avvenimenti e questi non sono mai stati confutati del tutto in sede processuale. E’ pacifico, nei processi servono certezze, non bastano semplici congetture. Tuttavia è anche dimostrato che le prove sulle quali era stata formulata la condanna di primo grado esistevano ed erano tangibili. Certo, non davano risposta a molteplici interrogativi, ma, associate ai comportamenti furbeschi e melliflui tenuti da parte dei due imputati nel corso delle primissime fasi della vicenda, erano idonee a fornire un’istantanea abbastanza nitida della situazione. Il duro lavoro degli avvocati della difesa, sommato all’imperizia degli inquirenti nelle varie fasi delle indagini, ha fatto invece emergere un quadro processuale completamente diverso da quello che si prospettava in seguito alla sentenza di primo grado, ed al termine di questo percorso si è infine giunti all’assoluzione con formula piena.

Nel nostro ordinamento è possibile che una persona condannata nel giudizio di primo grado venga assolta in appello, è per questo che esistono i tre gradi di giudizio. E’ giusto che in assenza di prove che rendano gli imputati colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio si debba necessariamente optare per la loro innocenza. Per contro bisogna spezzare una lancia in favore di chi nutre ancora riserve sull’epilogo di questa triste pagina di storia italiana. Il fatto che la Corte d'appello abbia stabilito che la Knox e Sollecito non siano colpevoli non sta a significare che i due studenti non abbiano commesso materialmente il delitto. In ogni caso il dubbio sopravvive all’assoluzione. E la verità sulla sorte di Meredith, purtroppo, non la sapremo mai.

Il fallimento del nostro sistema giudiziario sta tutto qui, nel fatto di non essere riusciti ad accertare veramente come siano andate le cose. Ovviamente, questo è uno dei possibili esiti di qualsiasi dibattimento processuale: a stabilire la colpevolezza o l’innocenza di un individuo sono sempre altri esseri umani e l’errore è contemplato nella natura stessa dell’uomo. Tuttavia bisogna anche ricordare una triste tendenza che ci sta interessando direttamente negli ultimi anni: in Italia, sempre più spesso, la realtà oggettiva rimane celata, per un motivo o per un altro. Tutte le volte che ciò accade, rappresenta una sconfitta per ogni singolo cittadino del nostro paese. Nella fattispecie, la Corte d’Assise d’appello di Perugia ha deciso che Amanda Knox e Raffaele Sollecito non sono colpevoli, ma la verità è che non è stata in grado di determinare con esattezza chi fossero gli assassini di Meredith Kercher. Un sistema giurisdizionale assolve pienamente alla sua funzione soltanto quando giunge ad una conclusione univoca, insindacabile, priva di dubbi. E questo non è il caso. Amanda e Raffaele sono innocenti per la giustizia italiana, ma non sono innocenti in termini assoluti: prima o poi saranno comunque chiamati a rispondere del loro comportamento, giusto o sbagliato che sia. Chi scrive non conosce le convinzioni personali dei due giovani in materia spirituale, né può formulare un giudizio di innocenza o colpevolezza nei loro confronti, ma è comunque certo di una cosa. Se gli uomini si possono ingannare, è impossibile mentire a Dio o alla propria coscienza.

In molti vedono nella sentenza di secondo grado sul caso Meredith l’iconografia di un’ingiustizia sociale. In seguito alla decisione della Corte d’appello, per la giustizia italiana Rudy Guede rimane l’unico colpevole dell’orrendo crimine. Il giovane ivoriano, meno abbiente rispetto ai compagni di sventura, non ha mai goduto dell’appoggio dei media e dell’opinione pubblica. E’ sempre stato considerato come il mostro da sbattere in prima pagina e probabilmente rimarrà l’unico a pagare per il delitto. Inoltre, non potendosi permettere avvocati di chiara fama, aveva scelto fin da subito una strategia difensiva diversa da quella di Amanda e Raffaele. Poiché sull’ivoriano pendevano prove che confermavano in maniera schiacciante la sua presenza nella stanza di Meredith la notte del 1° novembre del 2007, i suoi avvocati avevano chiesto ed ottenuto il rito abbreviato, che aveva portato ad una condanna in Cassazione a 16 anni di reclusione per concorso nell’omicidio della studentessa inglese. La sentenza di terzo grado a carico di Rudy aveva sancito un principio fondamentale, disatteso dai giudici d’appello di Perugia. Guede era stato ritenuto colpevole dell’omicidio in concorso con Amanda e Raffaele. Adesso che sono cadute le accuse nei loro confronti, posto che sul luogo del delitto erano presenti tre persone, rimangono due misteriosi assassini non meglio identificati. Chi possano essere queste fantomatiche due persone, a distanza di 4 anni, nessuno lo sa e nessuno lo saprà mai.

Figura centrale nella vicenda è la statunitense Amanda Knox (per uno scherzo del destino Knox era anche il cognome della criminale protagonista di un discusso film di Oliver Stone, Assassini Nati).
Amanda incarna il modello ideale di bellezza che la società occidentale ci impone da più di mezzo secolo. E’ la classica ragazza della porta accanto. Bionda, occhi chiari, carina, slanciata. Il suo aspetto fisico e la sua personalità hanno influenzato necessariamente, nel bene e nel male, tutti coloro i quali abbiano seguito il caso Meredith. Amanda Knox si ama o si odia, senza mezzi termini.

Quando è apparsa la figura di Amanda, tutti hanno immediatamente avuto cura di prendere le sue difese o di indicarla come autrice del crimine, senza preoccuparsi minimamente di far luce sui fatti, di comprendere come fossero andate effettivamente le cose, di battersi per la verità. La studentessa di Seattle è stata la vera protagonista del processo. Teatrale per natura, si è emozionata, ha pianto, ha dichiarato più volte la sua innocenza, ma ha anche insabbiato, mentito, accusato un innocente, Patrick Lumumba, che probabilmente, se il caso non avesse voluto la presenza di un testimone in grado di scagionarlo, si sarebbe trovato in guai molto seri.

L’opinione pubblica americana si è subito mobilitata compattamente per prendere le difese della Knox, con poche sporadiche eccezioni. Se è innegabile che i mezzi di comunicazione di massa condizionino le idee delle persone, negli U.S.A. si è raggiunto un livello superiore. In quattro e quattr’otto sono spuntate come funghi associazioni e movimenti per la liberazione di Amanda, che ne hanno fatto una martire dei tempi moderni. Anche personaggi pubblici ed esponenti politici hanno fornito il loro supporto alla famiglia di Seattle. Per la liberazione della rampolla di casa Knox è stata messa in piedi una macchina organizzativa da un milione di dollari, che ha visto la collaborazione di società, compagnie aeree (Amanda, durante il suo ritorno verso casa, ha fatto scalo a Londra e per l’occasione è stata ospitata addirittura nella suite reale dell’aeroporto di Heathrow) e dello stesso governo americano, che ha messo in campo tutti i mezzi a disposizione per agevolarne il rientro in patria (per il disbrigo delle formalità doganali - il suo passaporto era scaduto durante il periodo di detenzione - l’ambasciata americana ha impiegato soltanto qualche ora). La famiglia Knox, che non ha badato a spese, non si è fatta mancare nulla: ha perfino ingaggiato una società di pubbliche relazioni per curare l’immagine della figlia. Nel processo mediatico è una mossa che può rivelarsi risolutiva.

Dall’altra parte c’è Raffaele Sollecito, studente di ingegneria pugliese del quale, sinceramente, si è sempre saputo ben poco. Ritenuto, forse a torto, come una pedina nelle mani di Amanda, è stato relegato quasi subito ad un ruolo di comprimario. Processualmente, ha vissuto della gloria riflessa della studentessa di Seattle. Anche perché agli americani, di Sollecito, importava poco o nulla: non essendo un connazionale, veniva nominato di rado dai media a stelle e strisce. Schivo, riflessivo, silenzioso, rappresenta l’esatto opposto di quella che, all’epoca del delitto, era la sua fidanzata. In ogni caso, la sorte di Raffaele è sempre stata strettamente legata a doppio filo con quella di Amanda, considerata esecutrice materiale del delitto nel dispositivo della sentenza di primo grado. Se fossero cadute le accuse nei confronti della studentessa americana, anche Sollecito, di conseguenza, sarebbe stato dichiarato estraneo ai fatti. Questo, i due ragazzi, l’hanno capito quasi subito. Avrebbero tranquillamente potuto farsi la guerra in sede dibattimentale, come era avvenuto nei momenti immediatamente successivi all’incriminazione, ma la loro strategia, alla fine, ha pagato.

Nelle ultime fasi del processo di secondo grado, quando tutti avevano cominciato a realizzare che il verdetto della Corte d’appello di Perugia avrebbe condizionato definitivamente le vite dei due imputati, il mondo si è diviso tra colpevolisti, in gran parte italiani, britannici ed europei, ed innocentisti, principalmente statunitensi. Il triste spettacolo mediatico che si è venuto a delineare è infine sfociato in uno scontro culturale che ha completamente messo da parte il ricordo di Mez e della sua orribile fine. La famiglia di Meredith non ha avuto il risalto mediatico che avrebbe meritato. Si è sempre comportata con grande dignità, rispetto e riservatezza. Anche in seguito all’assoluzione di Amanda e Raffaele ha confermato la propria fiducia nella giustizia italiana. I Kercher sono stati costretti a subire un torto inimmaginabile, eppure hanno sempre mantenuto un contegno ed una compostezza ineccepibili. E’ per questo che meritano la massima stima di tutti.

Per Meredith si sono commossi davvero in pochi. Mentre tutti erano a conoscenza di vita, morte e miracoli di Amanda, in costante bilico tra due estremi - c’era chi la dipingeva come una ragazza innocente, pura e candida e chi invece vedeva in lei l’incarnazione del vizio e della lussuria -, nessuno si è interessato a Mez. A nessuno è mai importato di scoprire chi fosse quella studentessa inglese dai capelli scuri e dagli occhi vivaci, di comprendere quali fossero i suoi interessi, le sue idee, i suoi sogni, le sue ambizioni. Come se improvvisamente la vittima dell’atroce delitto di Perugia, una ragazza che ha avuto l’unica colpa di venire a studiare nel nostro paese, fosse diventata un elemento del tutto accessorio ed estraneo alla vicenda.

Il processo di Perugia è stato un evento mediatico senza precedenti. Se in passato siamo stati abituati a seguire per filo e per segno gli sviluppi di numerosi delitti consumati negli angoli più reconditi della nostra penisola, il caso Meredith, per la prima volta nella storia del sistema giudiziario italiano, ha coinvolto l’opinione pubblica di mezzo mondo.

Quando agli spettatori giunge notizia di un crimine efferato, questi tendono in via del tutto naturale a ricercare un colpevole ed interessarsi ad ogni aspetto della sua esistenza. Se il sospettato in questione gode di uno charme particolare, l’attenzione diviene addirittura morbosa. Ed è esattamente ciò che è avvenuto con Amanda Knox. I giornalisti ed i cittadini americani, nella fattispecie, non hanno esitato a sposare la tesi dell’innocenza - senza se e senza ma - portando avanti un ragionamento contraddittorio e campanilistico. La protervia dei media americani sta tutta qui. La povera Meredith era morta, le prove ricollegavano la presenza della studentessa di Seattle sulla scena del crimine, il comportamento tenuto dai sospettati in sede di indagine ricordava le commedie dell’equivoco di plautina memoria, eppure negli Stati Uniti non avevano dubbi. Amanda Knox, la classica brava ragazza statunitense, doveva per forza essere innocente. Ritratta nei talk show come un angelo smarrito dal paradiso, rappresentava nell’immaginario collettivo la vittima di un errore giudiziario costretta dietro alle sbarre in un paese straniero culturalmente arretrato. Poco importava che non avesse alibi e che avesse cercato di insabbiare le cose fin dall'inizio, accusando del crimine una persona di colore completamente estranea ai fatti (in puro stile U.S.A.).

I giornalisti d’oltreoceano hanno speso fin da subito parole di fuoco per il nostro paese. Quando il dibattimento era ancora in corso, un opinionista televisivo era arrivato addirittura ad auspicare un intervento dei marines per la liberazione di Amanda, neanche fosse un ostaggio di guerra in un paese ostile. La situazione è migliorata soltanto con l’assoluzione. Il columnist del New York Times e Premio Pulitzer Timothy Egan, dopo aver sparato a zero sulla giustizia italiana durante questi lunghi 4 anni, si è complimentato con il nostro paese per la sentenza di secondo grado, dimostrando un’imparzialità degna di un tifoso calcistico che assiste ad un derby. Prima ci hanno fatto passare per un paese di forcaioli, adesso di colpo siamo diventati ipergarantisti, un modello da seguire per tutta la comunità internazionale. A pochi minuti dalla lettura della sentenza il Dipartimento di Stato si è addirittura complimentato con il nostro paese per la validità del sistema giudiziario. Se in molti hanno ravvisato nella nota del governo americano ingerenze nei nostri affari interni, qualcuno ha perfino ipotizzato che il tam-tam mediatico, con qualche “spintarella” da parte della diplomazia internazionale, possa aver contribuito ad influenzare i giudici nella loro decisione. Personalmente, mi sentirei di escludere a priori uno scenario del genere. Perché allora non si tratterebbe di una sconfitta per la nostra giustizia, ma addirittura della sua abdicazione.

I media americani, in ogni caso, erano palesemente in malafede ed hanno pesantemente condizionato l’opinione pubblica del loro paese. Manco a farlo apposta, nessun giornalista statunitense ha speso una parola di cordoglio per Meredith e per il dolore dei suoi familiari. La motivazione è semplice: a loro non è mai importato assolutamente nulla del fatto che nella vicenda sia stata uccisa una persona. Proprio perché nel caso di Perugia non ci sono certezze - e forse non ci sono mai state -, ostentare verità assolute e vaticinare verdetti, sostituendosi ai giudici, è del tutto inaccettabile, oltre che irrispettoso nei confronti della vittima. Evidentemente, vista la sicumera mostrata negli ultimi giorni del processo, qualcuno tra i giornalisti americani innocentisti doveva trovarsi in via della Pergola la notte del delitto.

Il comportamento tenuto dai mezzi di informazione a stelle e strisce è patetico, incoerente, opportunista. Ai giornalisti americani basterebbe guardare in casa propria per scoprire alcune delle più grandi ingiustizie e nefandezze mai perpetrate - nei confronti di cittadini americani ed italiani - in nessun sistema giurisdizionale di matrice occidentale. Ricordiamone alcune.

La strage del Cermis rappresenta l’emblema del modus operandi americano in tema di giustizia. Il 3 febbraio del 1998 un aereo militare statunitense tranciò i cavi della funivia del Cermis, in Val di Fiemme, provocando la morte di 20 persone. Le indagini dimostrarono che il velivolo volava troppo basso e ad una velocità troppo elevata. Il risultato? Processo in casa propria, qualche buffetto sulle spalle e colpevoli a piede libero.

Nicola Calipari, agente segreto italiano, rimase ucciso il 4 marzo del 2005 mentre era impegnato nella liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, tenuta in ostaggio in territorio iracheno. Alcuni soldati americani, che presidiavano un posto di blocco, spararono numerosi colpi verso l’autovettura che ospitava Calipari e la giornalista del Manifesto, appena tratta in salvo. Il nome di Mario Lozano, il marine che premette materialmente il grilletto aprendo il fuoco contro il convoglio, venne rivelato casualmente. Un blogger, approfittando abilmente di una fuga di notizie, riuscì a risalire alle generalità del militare attraverso la decrittazione degli omissis contenuti nel rapporto della commissione d’inchiesta statunitense. Tuttavia, quando il nominativo giunse in mano agli inquirenti italiani, era ormai troppo tardi. Il soldato americano si smaterializzò, sparendo nel nulla, e con lui la speranza di avere giustizia. Assolto dalla giustizia militare americana, Lozano ricomparve qualche tempo dopo a New York, ma venne prosciolto anche dalla terza Corte d’Assise di Roma, che dichiarò non luogo a procedere per difetto di giurisdizione.

L’assoluzione di O.J. Simpson ha fatto discutere l'America. Per certi versi si tratta di un processo mediatico che presenta elementi in comune con il delitto di Perugia. Orenthal James Simpson era una stella della National Football League degli anni ’70. Appesi gli scarpini al chiodo, Simpson aveva intrapreso una carriera cinematografica. Nel 1994 venne accusato dell’omicidio della ex moglie e di un suo amico. L’ex campione di football, ricco, famoso, di colore (utilizzerà questo elemento, il presunto odio razziale nei suoi confronti, come un’arma per far colpo sulla giuria), ingaggiò i migliori avvocati sulla piazza, un vero e proprio dream team forense. Grazie all’abilità dei suoi legali, capaci di smontare pezzo per pezzo le ricostruzioni dell’accusa, venne dichiarato innocente in sede penale nonostante vi fossero numerose prove che lo identificavano come esecutore materiale degli omicidi. Poco meno di un anno dopo, quando le polemiche erano ancora lontane dal placarsi, venne invece riconosciuto colpevole in sede civile e condannato a risarcire i familiari delle vittime. Agli americani che si dicono certi dell’innocenza di Amanda Knox andrebbe fatta una sola, semplice domanda. O.J. Simpson è colpevole? Forse, interrogati su avvenimenti che non possono non conoscere, riuscirebbero a prendere coscienza di un concetto essenziale: di come la verità sostanziale, a volte, possa non coincidere con quella processuale.

Un altro incredibile caso di malagiustizia made in U.S.A. ci riguarda direttamente. Un nostro connazionale è detenuto da più di 10 anni negli Stati Uniti, condannato per un crimine che dichiara di non aver commesso. Enrico “Chico” Forti, all’epoca dei fatti, era un imprenditore italiano residente a Miami. Nel 2000 venne condannato all’ergastolo da un tribunale della Florida per l’omicidio del figlio di un imprenditore con il quale era in affari. La giuria popolare emise la sentenza al termine di un processo completamente arbitrario: la Corte basò il verdetto di colpevolezza sulle circostanze, in totale assenza di prove materiali. Nel dispositivo, infatti, i giudici ignorano completamente se Forti abbia premuto materialmente il grilletto dell’arma, mai ritrovata, che ha ucciso il giovane, oppure debba essere considerato soltanto il mandante dell’omicidio. Un po’ come a dire, “secondo noi sei stato tu: come, quando, perché, non ci interessa”. E se i giudici di Perugia avessero tenuto un atteggiamento simile nei riguardi di Amanda Knox? Come sarebbe stato giudicato oltreoceano? Del caso Forti si sono occupati davvero in pochi. “Chico” non ha avuto il supporto costante del ministero degli Esteri, come ha fatto il Dipartimento di Stato americano con la Knox, e si trova in carcere ingiustamente negli Stati Uniti nel silenzio più completo del mondo dell’informazione.

Ma vogliamo ricordare le decine di innocenti mandati al patibolo dalla giustizia a stelle e strisce in tutti questi anni? Persone ai margini della società, povere, malate, sole. La lista sarebbe lunga, ma un caso in particolare è balzato sulle prime pagine di tutti i giornali pochi giorni fa. Troy Davis era un afroamericano 42enne accusato dell’omicidio di un poliziotto. E’ stato giustiziato, dopo 20 anni nel braccio della morte, il 21 settembre di quest’anno, nonostante l’opinione pubblica nutrisse forti dubbi sulla sua colpevolezza. Così, mentre il boia praticava l’iniezione letale a Davis, la stampa americana era troppo occupata a fare la morale alla giustizia italiana sul caso Knox per lavare in casa i propri panni sporchi. I classici due pesi e due misure. Sterile retorica? Forse. Sta di fatto che, mentre il sistema giudiziario americano fa più acqua del Titanic, i media statunitensi hanno dimostrato ancora una volta di meritarsi l’etichetta di ipocriti, di avvoltoi, di opportunisti.

In conclusione, è opportuno chiarire un concetto di importanza sostanziale. Al di là delle proprie convinzioni personali, non bisogna mai festeggiare per una condanna o per un’assoluzione, come se si stesse assistendo ad una stupida partita di calcio. La stessa natura umana contempla la possibilità di commettere atti che vanno contro quelle regole delle quali ogni comunità si dota per garantire la pacifica e serena convivenza tra i consociati. E’ per questo che ogni ordinamento giuridico attribuisce l’esercizio dell’azione penale, perché la giustizia faccia il suo corso. Chi ha sbagliato deve necessariamente pagare, ma se non si è certi della colpevolezza di una persona, nel dubbio, è preferibile lasciarla in libertà.

E’ meglio un colpevole libero, o un innocente in galera? Per rispondere a questa domanda esistenziale vorrei ricordare Enzo Tortora. Nel 1983 il popolare conduttore televisivo fu accusato di associazione per delinquere di tipo mafioso e traffico di stupefacenti in base alle false dichiarazioni di alcuni pregiudicati. Incarcerato ingiustamente, Tortora fu segnato in modo irrimediabile dalla vicenda. Morì nel 1988, un anno dopo la sua assoluzione definitiva. Ebbene, il caso Tortora può aiutarci a riflettere. L’istituzione carceraria deve essere l’estrema ratio, l’ultima risorsa, perché l’esperienza in carcere - che non è mai una vittoria per la società, semmai una sconfitta - segna necessariamente l’esistenza di qualsiasi essere umano.

Fra qualche tempo, quando si spegneranno i riflettori sulla vicenda, una famiglia resterà nell’oscurità, tornerà nell’oblio della quotidianità senza aver modo di placare il proprio dolore. Alla famiglia di Meredith vanno le nostre scuse più sincere. Come italiani, abbiamo innanzitutto il dovere morale di chiedere perdono per il teatrino mediatico che noi tutti, nessuno escluso, abbiamo contribuito ad alimentare, speculando su una tragedia come se stessimo assistendo ad un incontro sportivo. Se il fallimento della giustizia è il fallimento della collettività, oggi abbiamo perso tutti. In ogni caso non dobbiamo dimenticare le tristi vicende di Perugia. Ricordare Meredith, la sua famiglia e la sconfitta della giustizia italiana. Sperare che un giorno, come paese, potremo finalmente emendarci dal senso di colpa che ci attanaglia per non aver fatto tutto il possibile affinché la verità venisse a galla.

Alessio Lannutti