giovedì 19 novembre 2009

Il Cuore di Farfalla dentro ognuno di noi: anche delle persone diversamente abili


Ivana Botticelli è una giovane autrice di Benevento, amante della scrittura e del mondo di internet. Dalla nascita è affetta da una grave disabilità e con la sua grande forza d'animo si batte per i diritti e una migliore vivibilità sociale delle persone disabili. Nel 2005 esordisce con una prima edizione del suo libro “Cuore di Farfalla”, poi rivista e arricchita di una raccolta di poesie, affiancata da un cortometraggio del giovane regista Lorenzo D'Amelio. Ivana si definisce una donna volutamente “provocante e piena di sentimenti” che cerca di raccontare nel suo libro perché le emozioni non hanno e non fanno differenze e si muovono liberamente, al di là delle difficoltà corporee. Nella sua intervista Ivana Botticelli ha cercato di raccontare le sue esperienze di vita, i suoi ostacoli quotidiani e la sua voglia di vita libera come una farfalla.


Solitamente nell'immaginario collettivo quando si parla di farfalle si pensa alle ali, perché hai scelto il cuore di una farfalla per il titolo del tuo libro?

Premetto che io adoro le farfalle, perché mi danno un senso di libertà, e di bellezza. È pur vero che la loro vita non dura altro che ventiquattro ore, e penso che in queste poche ore esse possono raggiungere quella felicità che noi rincorriamo nel corso della nostra lunga vita, e che forse non raggiungeremo mai. A parte questo motivo che mi ha spinto a scegliere questo titolo, c’è n’è anche un altro. Ascoltando una canzone per me bellissima di Michele Zarrillo “L’elefante e la farfalla” in quel testo mi sono rispecchiata, ed ho visto in quelle parole ciò che proviamo noi, diversamente abili, in questa società basata solo sull’apparire, non guardando nei nostri cuori. Questa canzone parla di un elefante che si innamora di una farfalla, ma lei non ricambia il suo amore perché si sente bella e non vuole sprecare il suo tempo con un elefante essendo lui grosso e pesante da seguirla, e in una parte del testo l’elefante dice alla sua amata farfalla: “dentro di me ho un cuore di farfalla e non potrai vedere mai quanto lui ti somiglia.” Se riflettete è davvero così, perché noi persone con handicap abbiamo voglia di vivere come gli altri, amori, amicizie, lavoro etc etc. ma la società è un po’ come quella farfalla, si avvicina a noi “elefanti” ma quando abbiamo bisogno di lei, lei vola via spezzandoci il cuore.

Se dovessi citare tre aspetti del tuo libro per invogliare il lettore alla lettura, cosa metteresti in evidenza?

È un piccolo “diario” con parole semplici e scorrevoli, di una donna che non vuole vivere passivamente le sue giornate, che vuole affermarsi con le sue idee, i suoi sogni, anche se è difficile riuscirci, ma ci vuole provare, è un libro vero senza tabù. E' stato anche oggetto di vari incontri con molti giovani di scuole medie e superiori della mia città e provincia (Benevento) e la cosa che mi ha colpito è stata che ragazzini delle scuole medie sono più sensibili ed interessati di tante persone adulte che dicono di sapere o fare. Quindi c’è speranza nella prossima generazione affinché scompaiano per sempre questi pregiudizi. Forse è solo una speranza, un’utopia ma se non abbiamo neanche questa piccola luce a cosa serve vivere!? Un altro aspetto che potrei citare, è quello di mia madre, una donna che potrei definire MADRE CORAGGIO! Che non si è mai abbattuta pur avendo avuto una vita dura, una giovane vedovanza e tre figli da allevare tra cui me con i miei mille problemi, ma mi ha dato tanto coraggio, tanto amore, mi ha sempre trattata da persona “normodotata” , è vero, mi ha anche un po’ viziata, ma quale mamma non vizia i propri figli? Soprattutto se sono ultimogeniti. Però quando era necessario mi sgridava anche. Vi sto un po’ raccontando di mia madre per farvi capire che non si è mai vergognata di avere una figlia “diversa”, e se oggi sono di mentalità libera lo devo a lei. Vorrei gridare un GRAZIE MAMMA ovunque essa sia! Ma non solo per avermi dato tutto il suo amore ma anche per avermi regalato una sorella fantastica che ha proseguito il suo cammino dandomi il suo stesso calore da quando è andata via.

Il giovane regista Lorenzo D'Amelio ha tratto dal tuo romanzo un cortometraggio. Credi che il mondo della cultura e dell'informazione trattino in modo adeguato il tema della disabilità o bisogna fare di più?

Eravamo intenzionati a fare la seconda edizione di “Cuore di farfalla” visto il successo della prima, in questa nuova edizione ho aggiunto una raccolta di poesie fatte nel corso della mia vita, io le definisco piccoli pensieri, frammenti di vita. Volevamo creare oltre alla scrittura qualcosa che desse immagini a quelle parole stampate, ma non sapevamo cosa e come fare, ne parlai con un amico che si occupa di grafica. All’inizio pensò di fare lui qualcosa di carino, ad esempio un video con mie immagini, ma poi ebbe la grandiosa idea di presentarmi Lorenzo. Lorenzo ed io insieme ad altre persone parlammo per diverse settimane per metterci d’accordo su cosa e come si volesse realizzare un progetto che desse davvero il giusto sapore a ciò che volevamo far uscire fuori. Fu davvero una sorpresa per tutti noi nel vedere il suo operato, ha saputo creare un cortometraggio che non sa di pietismo ma allo stesso tempo emoziona, ed è riuscito a capire cosa io volessi mandare alla gente con semplicità e sensibilità che hanno solo poche persone e lui è uno di quei pochi. Ma ahimè non è stato possibile commercializzare per mancanza di denaro, ma noi lo stiamo pubblicizzando in varie manifestazioni, o convegni sociali, o festival di cortometraggi. Come dico sempre quando vado a dei convegni nella mia zona, i media non parlano abbastanza del mondo della disabilità, o se se ne parla si parla in modo sbagliato, come se noi fossimo cittadini di serie b o addirittura di serie c, e mi riferisco alla categoria delle persone con handicap più o meno gravi come la mia patologia “tetraparesi spastica”. Molti pensano che questo tipo di patologia sia uguale per tutti i soggetti colpiti, ma si sbagliano, per questo c’è bisogno di più cultura di più spazi in tv, alla radio, sui giornali, film, ma dovrebbero essere curato nei minimi particolari, e non farne un commercio per far commuovere i cittadini, ma come una vera cultura.

Tu ti sei spesso battuta affinché i disabili possano vivere a pieno “una vita normale”. Cosa c'è da fare a livello delle istituzioni ed a livello sociale per far si che ciò avvenga?

Dunque io nel mio piccolo cerco di far sentire la mia voce scrivendo di tanto in tanto articoli su di un quotidiano della mia zona. Molte volte vengo anche demoralizzata da alcune persone e dai miei stessi compagni di sventura, perché dicono che tanto non serve a nulla farmi sentire, perché noi siamo e resteremo sempre cittadini di classe inferiore, e che dobbiamo essere grati a chi ci ama etc. etc. In parte le loro parole non sono del tutto sbagliate perché come ho già detto prima la società per noi fa pochissimo, ma se nessuno di noi si fa sentire come può la gente conoscere il nostro mondo!? Penso di essere una piccola goccia nel mare della vita, ma anche una goccia aumenta il mare e lo rende ancora più bello. A livello istituzionale e sociale ci sarebbe moltissimo da fare, soprattutto nel sud. Una cosa tra le tante è abbattere le barriere architettoniche, perché il sud ha dei posti meravigliosi da visitare, ma per chi è in carrozzella è molto complicato arrivarci, e non mi sembra giusto privarsi di tante meraviglie, o andando in qualche pub per chi ha la fortuna di avere amici, e trovarsi o con davanti dei gradini o con dei bagni non adatti alle nostre esigenze, oppure per andare nei negozi, essi sono troppo piccoli e se magari ci si riesce ad entrare gli altri non possono passare. Se non ci fossero i centri commerciali come avremmo fatto ad andare a fare le nostre spese?! Per non parlare poi degli uffici pubblici. Ma penso sempre una cosa: se prima non si abbattono le barriere mentali non potranno mai abbattere tutte le altre.

Francesca Ragno

mercoledì 18 novembre 2009

Il grande silenzio di chi? Degli intellettuali


Il 28 ottobre scorso il noto intellettuale e docente universitario Alberto Asor Rosa è stato ospite dell'iniziativa organizzata dall'associazione Eureka e il circolo culturale Enrico Berlinguer presso la suggestiva sala conferenze del museo civico di Albano Laziale per presentare il suo ultimo lavoro, il libro-intervista “Il Grande Silenzio”.

Un lungo colloquio raccolto dalla giornalista di Repubblica Simonetta Fiori che fa il punto della situazione sul ruolo degli intellettuali partendo dall'Ottocento fino ai giorni nostri, che si snoda in un percorso che vede due protagonisti, l'intervistato e l'intervistatore, attraverso una serie di domande creando non un semplice saggio, ma un intreccio di riflessioni e di vita vissuta. L'aspetto centrale del libro appare il modo in cui il prof. Asor Rosa riflette sul tema degli intellettuali e il suo vivere la questione analizzandola e raccontandola in modo pratico di come il suo essere intellettuale si sia intrecciato con la storia italiana degli ultimi cinquanta anni.

“La storia degli intellettuali italiani ha avuto un grande valore molto prima dell'Unità Nazionale, sono stati capaci di cementificare il sentimento unitario del Paese – esordisce così Asor Rosa per dare l'avvio alla presentazione del suo libro – e dopo la prima infanzia dello stato essi sono stati capaci di fare un lavoro di supplenza ed integrazione al lavoro dei politici.”

Negli ultimi venti anni si è assistito, invece, ad un allentamento del rapporto tra classe intellettuale e politica fino a portare a quello che il titolo del libro individua il grande silenzio della cultura italiana. C'è da chiedersi perché? Ci sono le responsabilità dei politici e del mondo della cultura ha spiegato Asor Rosa. “Si è verificata una settorializzazione della ricerca intellettuale che ha rinunciato a presentarsi come protagonista dei cambiamenti politici ed istituzionali. Dall'altro lato il ceto politico è diventato sempre più autoreferenziale, più intento a risolvere i problemi del Paese nella sua cerchia di ceto politico”
“Questo per due ragioni di motivazioni. – continua Alberto Asor Rosa – L'intreccio fra politica e cultura era favorito dalle grandi ideologie portatrici di grandi idee generali, mentre ora la politica ha un orizzonte molto ravvicinato. Inoltre in un modo globalizzato le categorie intellettuali sono trascese con un'assenza di opzioni culturali nell'orizzonte quotidiano”.

Alla domanda del pubblico chi è l'intellettuale, la risposta è stata diversa a seconda del periodo storico: “ Il lavoro intellettuale ha avuto un forte sviluppo con due fenomeni storici, il secolo dei lumi e la rivoluzioni industriale, era una vera e propria classe sociale capace di parlare di tutto, invece ora l'intellettuale è un grande specialista che proietta le sue conoscenze sul piano sociale, come Max Weber e Norberto Bobbio”.

Ora nel legame tra politica e cultura si è innestata anche la crisi della democrazia italiana in cui le forze politiche non sono riuscite a dare risposta alla tradizione e ai rapporti istituzionali e anche il dato di fatto che ci sono strumenti di espressione limitati per gli intellettuali su tutti i mezzi di comunicazione dove il circuito informativo della cultura è molto stretto.

Cosa fare allora per gli intellettuali per non cedere alla tentazione del “grande silenzio”? Asor Rosa apre con l'ultima questione da parte del pubblico in sala altri spunti di riflessione: “ L'opinione pubblica e la sua parte intellettuale non può cedere alla tentazione e deve reagire attraverso una resistenza positiva. Se non si trova più spazio per gli intellettuali singoli bisogna rafforzare gli intellettuali collettivi come la scuola e l'università. Specialmente la scuola rappresenta l'unico tessuto istituzionale in permangono alcune categorie positive (l'identità nazionale, la tradizione e il rispetto delle istituzioni). Bisogna mantenere attivo il circuito tra politica, cultura, intelligenza ed impegno mantenendo vive la scuola e l'università.”

Certamente degli intellettuali ha bisogno la politica nostrana per recuperare il suo spessore, forse lo chiede la politica stessa che escano dal loro “grande silenzio” e tornino a parlare e dire la loro. Staremo a vedere se i due mondi della politica e cultura torneranno di nuovo a prendere contatti e corteggiarsi a vicenda.

Francesca Ragno

domenica 15 novembre 2009

Cesare Battisti accusa il governo: “Mi vogliono in Italia come trofeo”


Momenti decisivi per le sorti dell'ex militante dei PAC (Proletari Armati per il Comunismo), in attesa della decisione sulla richiesta d'estradizione formulata dal governo Berlusconi che sarà a breve discussa dalla Corte Suprema Federale del Brasile, paese dove Battisti è attualmente accolto come rifugiato politico. Battisti è ritenuto colpevole di 4 omicidi tra il 1978 e il 1979: in tre di essi è statoi riconosciuto concorrente nell’esecuzione, e condannato all’ergastolo con sentenze passate in giudicato.

Ciò che sta scuotendo l'opinione degli scettici è capire fin dove lo status di rifugiato politico possa arrivare a rendere immune un individuo, discussione al limite tra il sempre più sottile confine tra giurisprudenza e politica. Secondo la definizione di "Wikipedia", è rifugiato politico chi è fuggito o è stato espulso a causa di discriminazioni politiche, religiose o razziali dal proprio Paese, e che di conseguenza è accolto come rifugiato in un paese straniero.

Cesare Battisti è stato condannato per l'uccisione di un macellaio nel corso di una rapina, reato che non rientra nello spettro di indennità di cui un rifugiato politico gode. La sentenza, peraltro, non è esente da dubbi, poichè resta presente l'ipotesi di un compromesso tra gli altri imputati: Battisti è stato condannato in contumacia attraverso la testimonianza accusatoria dei due ex militanti pentiti, che hanno in tal modo ottenuto una sensibile riduzione della pena, solo 15 anni rispetto all'ergastolo del compagno fuggito.

E' quindi giusto che gli sia concesso un rifiuto per la richiesta di estradizione? La mia personale opinione è che questa richiesta sia una falsa rivendicazione di giustizia mascherata con fin troppo evidenti motivazioni politiche da parte del governo Berlusconi, alla costante ricerca di facili clamori per esaltarsi di fronte al cieco elettorato.

La discussione andrebbe invece affrontata con occhi diversi, apolitici, cercando di capire se una scelta di azione politica possa arrivare ad esser considerata tanto importante da porre in secondo piano la vita di un essere umano. Le vittime degli omicidi di cui Battisti è accusato (come omicida e come concorrente) hanno una famiglia che li rimpiange e che è in attesa di giustizia. E' questo il corretto spirito con cui affrontare la vicenda, e non, come lo stesso Battisti ha dichiarato, quello di cercare un misero "trofeo" politico con cui gonfiare dibattiti televisivi e la prossima propaganda elettorale, aggiungo io.

Non bisogna giudicare il Battisti politico, ma la sua azione, che anche se portata avanti secondo motivazioni profonde e che vanno al di là del crudo gesto criminale, in un paese civile non può esser perdonata.

P.S.
Quando politica e giurisdizione si confondono, muore la democrazia. Sarebbe bene che alcuni politici in primis, lo ricordassero più spesso.

P.P.S.
Quest'articolo non vuole giudicare il Battisti uomo e pensatore, politico e intellettuale (autore di scritti e riflessioni apprezzate con ampio seguito anche all'estero), ma quella che è una oggettiva richiesta di estradizione per crimini commessi, indipendentemente dal fine che li ha motivati.

Marco Montoro

domenica 1 novembre 2009

Uccisi dallo Stato


La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte. (Art. 27 Costituzione italiana)

In Italia, in pieno XXI secolo, è ancora possibile morire per mano dello Stato. Sembra assurdo, a tratti paradossale, ma è così. Circostanze diverse, esiti assurdamente analoghi. Stefano Cucchi era un ragazzo come tanti. Come Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Stefano Sandri e molti altri. Non troverete le loro storie sulle copertine di quotidiani e riviste patinate, dedicate ormai quasi esclusivamente al gossip ed alle diatribe tra gli opposti schieramenti politici. Simili tragedie sembrano interessare soltanto relativamente i mass media, preoccupati di propinare al “popolino” la solita solfa, reiterata ciclicamente fino alla nausea. Finché una notizia vende, viene pubblicata, una volta scemato l’interesse, non se ne parla più. Tali vicende sarebbero irrimediabilmente destinate ad inabissarsi nel mare dell’oblio, se non vi fosse, a tenerle miracolosamente a galla, la sete di verità, di giustizia e l’indignazione delle famiglie delle vittime e di molti italiani per bene.

Stefano era stato fermato a Roma, nel Parco degli Acquedotti, nella notte tra il 15 ed il 16 ottobre perché trovato in possesso di una modica quantità di stupefacenti. Secondo la testimonianza dei familiari, si trovava in piena salute al momento dell’arresto. Stefano muore il 22 ottobre nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, senza che in precedenza fosse stata data la possibilità ai familiari di incontrarlo. Il suo volto è tumefatto, sfigurato. Il corpo presenta evidenti lesioni. Secondo le dichiarazioni delle autorità il giovane sarebbe caduto dalle scale. Tale ipotesi appare però alquanto improbabile agli occhi dei parenti del ragazzo dopo aver visionato le fotografie della salma, scattate in seguito ai rilievi autoptici di rito.

E’ innegabile che chi commetta sbagli, durante il proprio percorso di vita, debba pagare. E’ però altrettanto indubbio che i detenuti, qualsiasi crimine essi abbiano commesso, debbano essere tutelati e rispettati nella propria dignità. Sono anche loro esseri umani, non bisogna mai dimenticarlo. Proprio per queste ragioni è inconcepibile che un ragazzo come tanti, per un reato tutto sommato “veniale”, debba perdere la propria vita. Non è giustizia, è mera barbarie.

Se ciò accade, e si ripete periodicamente nel tempo, in Italia c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Antitesi nell’estate 2009 è riuscita ad entrare nelle carceri italiane riscontrando una situazione, nell’emergenza sovraffollamento, tutto sommato umanamente tollerabile. Tuttavia è innegabile che il sistema carcerario italiano presenti numerose lacune e necessiti di importanti cambiamenti per divenire realmente “rieducativo”.

Lo scandalo della giustizia "lumaca", con i magistrati oberati da carichi di lavoro sovraumani, ne è esempio lampante. Così, mentre mafiosi e camorristi restano impuniti per il mancato deposito delle motivazioni delle sentenze entro i termini previsti dalla legge, troppi giovani si sono trovati a pagare a caro prezzo, spesso con la vita, piccoli errori dei quali la nostra società e noi tutti - nessuno escluso - siamo direttamente o indirettamente responsabili. Nell’amara consapevolezza che quello che è accaduto a questi ragazzi poteva e può tuttora capitare ai nostri conoscenti, ai nostri cari, forse addirittura a noi stessi.

Questo articolo non vuole assolutamente essere un atto di accusa contro lo Stato e - in particolare - contro le Forze dell’ordine italiane, che rischiano ogni giorno la vita per garantire la nostra sicurezza e la possibilità di vivere in un paese il più possibile libero e democratico. Dare un senso a queste morti diventa un obbligo morale per tutti gli operatori dell’informazione, a prescindere dalle opinioni politiche personali. I cittadini onesti e rispettosi della democrazia, certamente la grande maggioranza degli italiani, devono sapere. Chi scrive oggi su queste pagine si sente assolutamente in dovere di mettere l’opinione pubblica a conoscenza dei fatti, per contribuire - nelle nostre limitate possibilità - affinché venga fatta giustizia. Perché fatti simili non si verifichino mai più nel nostro paese e perché i colpevoli vengano perseguiti a termini di legge.

Il dolore, il rimorso, la rabbia potrebbero portare persino a comprendere, se non addirittura giustificare, sentimenti di odio nei confronti delle Forze dell’ordine e delle Istituzioni in generale. Non bisogna assolutamente cadere in una simile tentazione. Bisogna avere fiducia nel proprio Paese e non fare superficialmente di tutta l’erba un fascio. Solo in questo modo potremo scoprire la verità e rendere degnamente giustizia alla memoria di Stefano e degli altri ragazzi, strappati troppo presto all’affetto dei propri cari.

Alessio Lannutti

venerdì 30 ottobre 2009

Pane, vino e Ciociaria


La Ciociaria, terra ricca di storia, bellezze paesaggistiche e specialità gastronomiche è il fulcro del nuovo progetto della Camera di Commercio di Frosinone che con "Pane, Vino e Ciociaria” intende valorizzare le potenzialità turistiche delle Terre Ciociare. Il nome del progetto è evocativo e mette in evidenza uno degli aspetti che si mira a portare a conoscenza: l'enogastronomia unito alle intrinseche potenzialità naturali del territorio.

L’avvio di questa nuova sponsorizzazione dei novantuno comuni della provincia di Frosinone che si estendono nella Valle del Sacco tra i monti Ernici, Ausoni e Lepini è stata inaugurato con un press-tour che dal 24 al 27 settembre ha coinvolto più di venti giornalisti di settore che hanno percorso da nord a sud la Ciociaria potendo scoprire vari aspetti da quelli culturali, enogastronomici e paesaggistici.

Prima tappa è stata l’inaugurazione dell’Albergo Diffuso di Castro dei Volsci diretto sapientemente da Beatrice Gazelloni e dalle sue soci che hanno saputo riscoprire le bellezze di un tipico paese di montagna riconsegnandolo a nuova vita dando anche la possibilità a giovani ristoratori e chef di sperimentare nuove idee gastronomiche coniugando la tradizione culinaria locale con la necessaria innovazione. Castro dei Volsci rappresenta il primo esempio di albergo diffuso di tutta la Ciociaria e può senza dubbio costituire un input alla sperimentazione di questa nuova forma di ricezione turistica che permette di recuperare spazi e luoghi abbandonati mettendoli a disposizione della collettività.

L’incontro con i territori ciociari ha significato anche conoscere le specialità gastronomiche del luogo dai vini pregiati, tra i migliori del Lazio, come il rosso Cesanese del Piglio l'unico a fregiarsi del riconoscimento DOCG nella regione e il bianco gradevole della Passerina del frosinate ai prodotti ortofrutticoli di eccellenza come i peperoni DOP di Pontecorvo capaci di adattarsi alle più svariate ricette e piatti.

Il press tour ha toccato anche luoghi dal grande peso storico come Anagni, città dei Papi, e nota per le vicende che hanno coinvolto Bonifacio VIII e Filippo il Bello con uno dei pochi casi di oltraggio alla figura papale e in cui è possibile ammirare uno degli esempi di arte medievale che si è protratto fino ad oggi in maniera totalmente intatta. La cripta della Cattedrale è infatti un gioiello artistico di grandissimo spessore con un pregiatissimi affreschi di tre grandi maestri che già nel 1200 precedevano gli studi sulla prospettiva portati al successo da Giotto un secolo dopo e poi un intero pavimento in stile cosmatesco completamente intatto.

Enogastronomia, arte, storia si uniscono anche alle bellezze paesaggistiche delle riserve naturali del parco nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise che comprende la zona della Valle Di Comino con bellezze floristiche della macchia mediterranea come il raro corbezzolo e faunistiche di grandissima varietà che è possibile percorrere attraverso sentieri ed apprezzare come luogo di relax e tranquillità nelle numerose country house di pregio come il relais Valle dell’Aquila dove il turista può immergersi nella natura in un ambiente totalmente bioarchitettonico.

Le potenzialità delle Terre di Ciociaria saranno ulteriormente valorizzate dal progetto “Pane Vino e Ciociaria” nei prossimi appuntamenti tra cui spicca nel primo week end di novembre con un incontro con i sapori ciociari dove l’intera provincia di Frosinone sarà animata da eventi che coinvolgeranno ristoratori, albergatori e i numeri operatori turistici.

Francesca Ragno

L'inceneritore più grande d'Europa che fine farà?


La giunta Marrazzo aveva previsto la costruzione del più grande impianto di termovalorizzazione d'Europa ad Albano, cittadina dei Castelli Romani, nonostante l'opposizione delle popolazioni locali. Ora dopo le dimissioni del Presidente quale sarà il destino di questo quarto impianto di incenerimento dei rifiuti del Lazio?

Appena dieci giorni fa migliaia di cittadini di Albano sono scesi in piazza con un solo intento e con un solo motto: "L'inceneritore non glielo faremo costruire!". Ma a quale inceneritore si oppongono i cittadini di Albano? L'opposizione è rivolta alla costruzione del quarto impianto di termovalorizzazione del Lazio, il più grande d'Europa che dovrebbe sorgere a pochi chilometri di distanza da quello di Colleferro, da quello di Malagrotta e dalla turbogas di Aprilia in un territorio quello dai Castelli Romani, noti in tutto il mondo per la bellezza dei territori e le eccellenze dei prodotti enogastronomici.

Il termovalorizzatore in questione sarà un gassificatore che produrrà energia elettrica e verrà alimentato in ingresso dal cosiddetto Cdr (Combustibile derivato dai rifiuti), ovvero tutto quel materiale riciclabile come carta, legno, plastica, stracci e gomma, arricchito di carbon cock. A supporto della struttura verrà realizzata un'ulteriore cava nella discarica di Roncigliano, destinata a ospitare i rifiuti speciali di scarto dell'incenerimento, i cui costi di mineralizzazione e vetrizzazione (ossia la trasformazione in vetro) sarebbero troppo alti da sostenere.

I comitati cittadini hanno presentato numerosi ricorsi al Tar per chiedere la sospensione della valutazione d’impatto ambientale in un primo momento negativa, ma improvvisamente diventata positiva dopo l’intervento dell’assessore ai rifiuti della Regione Lazio Di Carlo, destituito un anno fa dopo i servizi della trasmissione Report che lo vedevano in stretta comunanza con l'avvocato Cerroni proprietario della discarica di Malagrotta di Roma e del gruppo Coema che insieme all'AMA e ad Acea dovrà costruire l'impianto di termovalorizzazione di Albano.

La domanda che ci si pone: conviene costruire un quarto impianto di termovalorizzazione che brucerebbe solo il 6% dei rifiuti e il restante 94% conferito in discarica? La risposta della Regione è stata che magari la carta si può riciclare, ma la plastica non tutta e allora meglio bruciare tutto! I cittadini albanensi non si danno per vinti, la costruzione dell'inceneritore sarebbe l'ennesima beffa ambientale per un territorio che già da anni soffre di crisi ambientali: l'abbassamento drastico del lago, la carenza idrica con il razionamento dell'acqua settimanale, l'inquinamento dell'aria che secondo un’inchiesta dell’Espresso causa un alto tasso di tumori e malattie respiratorie al di sopra della media nazionale.

L'inceneritore sarebbe una beffa per i contadini della zona che si vedrebbero privati della salubrità dei terreni messi già a dura prova dalla decennale presenza della discarica di Roncigliano e per le aziende agricoli dei paesi circostanti che rischiano di perdere i marchi di qualità doc e igp perché l'Unione Europea vieta la presenza degli inceneritori vicino ai territori in cui si producono prodotti con marchi europei: un addio segnato per i vini frascati DOC e Velletri DOC? Chi lo sa!

Proprio per cercare di contrastare la costruzione di ciò che molti chiamano un “ecomostro” è partita la campagna Non Bruciamoci il Futuro (www.nonbruciamocilfuturo.org) che da mesi raccoglie firme per presentare una proposta di legge regionale che punti sul riciclaggio dei rifiuti e sulla raccolta differenziata e non sull'incenerimento visto che inoltre la quantità dei rifiuti prodotti nei Castelli Romani non sarebbe sufficiente per far funzionare a pieno ritmo un impianto così imponente e sarebbe necessario "importarli" da Roma (che ha già un inceneritore se pur ancora sequestrato dalla magistratura a Malagrotta) e forse dalla Campania.

Il clima elettorale alle porte di certo nei territori dei Castelli Romani non giocava a favore di Piero Marrazzo, vista la scelta di dare nel mese di agosto l’autorizzazione all’apertura dei cantieri del termovalorizzazione nonostante l'opposizione dei comitati e dello stesso consiglio comunale. Quindi, in contemporanea con lo scoppio dello scandalo che ha coinvolto il presidente della Regione Lazio, Bruno Astorre, Presidente del Consiglio regionale del Lazio e Carlo Ponzo, Presidente della Commissione Bilancio, avevano chiesto una sospensiva delle autorizzazioni dell’impianto di Albano visto tre ricorsi pendenti al TAR e visto che molti comuni hanno avviato già da tempo la raccolta differenziata finanziata dalla Provincia di Roma era meglio ripensare al progetto di termovalorizzatore, dove più che le ragioni politiche hanno sempre prevalso le ragioni economiche di società ed industriali e mai le ragioni della salute ambientale e dei cittadini.

Ora il presidente Marrazzo si è dimesso per lo scandalo e i ricatti che lo hanno coinvolto e sicuramente è il caso di chiederci: che destino avrà l'inceneritore di Albano? Verrà costruito? Si sospenderà l'iter di autorizzazione? Certo che con un presidente dimissionario e indisponibile si apre un grande enigma, che coinvolge migliaia di cittadini e la salubrità del loro ambiente. Auspichiamo che qualcuno fornisca una risposta, certa però e non una semplice affermazione di carattere elettorale che lascia il tempo che trova. Di sicuro infatti l'impianto di termovalorizzazione di Albano sarà uno dei punti centrali della prossima campagna elettorale che si prospetta alquanto pepata e agguerrita.

Francesca Ragno

mercoledì 16 settembre 2009

Il futuro dei giovani? Nascosto!!!


Si parla tanto di precariato, disoccupazione giovanile, laureati in cerca perenne di un posto di lavoro fisso che permetta di farsi una famiglia e delle certezze. Tante parole dei politici, tanti studi degli economisti e numeri degli statistici, ma mai si cerca di focalizzare l’attenzione sul disagio vissuto a fondo dalle giovani generazioni che pur con titoli di studi in tasca di alto livello e tante speranze sono messi di fronte ad una difficile realtà fatta di illusioni, invii infiniti di curricula e poche certezze.

A fotografare il travagliato percorso giovanile dal mondo universitario a quello lavorativo ci ha pensato Antonio Sangineto, regista della Rai e collaboratore per anni di Mario Monicelli, che nel suo romanzo di esordio ha voluto descrivere i sogni, le ambizioni e le tante delusioni di un giovane neo laureato dal futuro però incerto o meglio come recita il titolo del romanzo nascosto.

“Il Futuro Nascosto” è infatti uno dei pochi romanzi che cerca di dare voce al disagio giovanile attraverso la storia di Zerach, un ragazzo come tanti, sveglio, intelligente, ironico. Laureatosi, s’affaccia al mondo in cerca di un lavoro, scontrandosi subito con una realtà ostile e beffarda che fa a pezzi sogni di carriera e sogni d’amore, in una capitale Roma troppo grande e piena di vinti.

Un romanzo di grande attualità dove oltre a narrare le difficoltà di trovare un lavoro dopo la laurea, l’impossibilità delle giovani coppie di concretizzare i loro rapporti si mettono alla luce alcuni aspetti di grande impatto sull’opinione pubblica come il clientelarismo e le raccomandazioni contro il vero valore delle persone o la ricerca di una società diversa dove si possano riscoprire valori ormai perduti come quello della vera amicizia.

L’autore Antonio Sangineto ha rilasciato per Antitesi un’intervista che vuole essere un dialogo con lo scrittore per capire alcuni aspetti del romanzo, di cui vi invitiamo alla lettura.

Da cosa ha preso spunto per scrivere questo romanzo? Da una sua constatazione delle realtà o magari da dirette esperienze familiari?

Personalmente ho sempre avuto un background cinematografico visto i miei studi universitari su Pasolini e sulla sua lettura letteraria e filmica della realtà e dopo l’ennesima bocciatura di una mia sceneggiatura ho sentito il bisogno di riattivare quel mondo poetico pasoliniano che ha ispirato anche il mio modo di essere. Proprio dopo aver saputo del mancato finanziamento del mio film (dal titolo “30 e loro” ndr) ho incontrato sotto casa un signore, che di mestiere faceva il barbiere, che era riuscito ad ottenere un finanziamento di ben 370 mila euro per un documentario e da lì ho capito che dovevo dare un senso a tutto il lavoro che avevo fatto fino ad allora. Ho iniziato a girovagare nei quartieri di Roma che conoscevo poco e in cui Pasolini aveva ambientato i suoi romanzi più famosi e allora tornando a casa ho deciso di scrivere il mio romanzo “Il Futuro Nascosto”. Mi sono subito chiesto quale stile dare al romanzo e ho immaginato che l’imput doveva essere come un ruscello per far sì che la stesura e la lettura fossero fluide e così ho potuto affrontare le problematiche sociali, la caduta dei valori per cui le persone valgono più per quello che hanno che per quello che sono. I miei personaggi sono delle sfaccettature della società, delle varie forme di emarginazione e dei drammi esistenziali.

Raramente in film e libri si parla delle difficoltà delle giovani generazioni ad aprirsi al mondo del lavoro e rari sono coloro che hanno affrontato la tematica: mi viene in mente Paolo Virzì con il suo film “Tutta la vita davanti” o Simone Cristicchi con la sua canzone “Laureata precaria”. Come mai questa reticenza nei confronti di un tema sociale così rilevante?

Ormai la cultura è spesso omologata alla televisione così come il cinema e la letteratura, se si affrontano tematiche sociali lo si fa per demagogia sociale. Toccare il tema del precariato giovanile vuol dire toccare un nervo scoperto della società, la mia è stata una reazione culturale visto, come descrivo nel mio romanzo, c’è un nepotismo che blocca il talento e la genialità e si sfrutta la gente. La vera cultura non c’è più, non abbiamo più un Moravia o un Pasolini, si fa spesso demagogia culturale cerando delle affermazioni sociali individuali.

Il futuro nascosto: è nascosto perché è coperto da qualcosa che lo nasconde o è nascosto perché non c’è nulla e bisogna dare modo di costruirlo e fornire gli strumenti per porlo in essere?

Il futuro di per sé è nascosto; mi sono reso conto che qualunque giovane che sceglieva per se un determinato indirizzo di vita poi si scontrava contro chi questi spazi li gestiva e sbarrava l’ingresso. Le responsabilità in questo caso anche politiche sono di tutte le forze, nessuna esclusa. Le responsabilità vanno condivise in quanto si guarda al solo interesse personale, mancando la percezione delle motivazioni di un interesse generale.

Se dovesse incontrare un politico, che ha in mano gli strumenti per cambiare la situazione sociale descritta nel suo romanzo, cosa gli direbbe?

Non gli direi nulla, non mi capirebbe e mi riderebbe in faccia. Non ci parlerei, non avrei nulla da dire poiché sarebbe come parlare al vento. In Italia non abbiamo un Obama con cui sperare di cambiare le cose. Rimango convinto di una convinzione, che mi fa sperare che il mio lavoro non sia del tutto inutile. Credo che i pensieri sono come polline che attecchisce e arriva alla gente e come diceva Stendhal “un romanzo è uno specchio che percorre una strada maestra. A volte riflette l'azzurro del cielo, a volte il fango delle pozzanghere.”, che è quello che ho cercato di rappresentare con la vita di Zerach nel mio romanzo.

Francesca Ragno

mercoledì 2 settembre 2009

Quando la "libertà" è affascinata dalla dittatura


La politica estera è rappresentata dalle relazioni internazionali intrattenute reciprocamente dai governi dei vari Stati. Molto spesso, è specchio dei rapporti di convenienza esistenti tra i paesi stessi. L’Italia, storicamente - a differenza di altre nazioni europee - non si è mai trovata in una situazione di equiordinazione con le altre grandi realtà internazionali. Esempio lampante è la sudditanza nei riguardi degli Stati Uniti d’America, eredità delle vicende del secondo conflitto mondiale. Tale situazione di subordinazione, determinata in gran parte dalla riconoscenza del popolo italiano per il piano Marshall, è cresciuta esponenzialmente con il passare del tempo.

Il nostro momento più alto sul piano internazionale risale al periodo del governo Craxi - personaggio senza ombra di dubbio negativo per la nostra nazione (e grande amico di Muhammar Gheddafi, di cui parleremo più avanti, che gli deve addirittura la vita) - nell’episodio della “crisi di Sigonella”, forse prima vera circostanza nella quale lo Stato italiano impose con fermezza la propria sovranità agli USA. Da quel momento in poi iniziò la fase discendente della politica estera italiana, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Mai era capitato negli anni che il nostro paese subisse un vero e proprio ricatto da uno Stato canaglia. Ebbene sì, il caro governo delle “libertà” (libertà forse intese con riguardo ai costumi sessuali dei suoi esponenti, viste le vicende degli ultimi tempi) dopo averci mostrato da vicino come è fatto un dittatore - ovviamente con lampanti finalità pedagogiche - invitando il leader libico Muhammar Gheddafi a Roma in giugno, dopo aver concluso accordi capestro con la Libia in materia di contrasto all’immigrazione clandestina (quando sarebbe stato più semplice ed economico istituire in Italia la zona contigua), ha deciso di confermare la visita a Tripoli del Presidente del Consiglio a pochissimi giorni dalla liberazione da parte delle autorità scozzesi dell’attentatore di Lockerbie. Al-Megrahi, ormai malato terminale, è stato festeggiato al rientro in Libia come un eroe. Scene disgustose, accolte con sdegno in ogni angolo del globo, ma non in Italia. Roba da rimpiangere la politica estera “cowboy” di Ronald Reagan.

Gheddafi è un dittatorucolo da quattro soldi, terrorista, nemico della democrazia, presuntuoso, spaccone e arrogante. Per di più ha un pessimo gusto nel vestire: ha circa 70 anni e gira ancora agghindato come il Michael Jackson del periodo di Thriller e di Bad. A Roma si è presentato con atteggiamenti da padrone di casa, portando sul petto la foto di un eroe anti-italiano del periodo post-coloniale. Ha fatto le solite quattro sparate da bullo e prontamente gli esponenti politici che lo ospitavano sono stati costretti a dissociarsi. Dopo la contestata visita all’Università della Sapienza, ha chiesto addirittura - senza successo - di parlare alla gente dalla balconata di Piazza Venezia. Fortunatamente, qualche parlamentare di buon senso, fra le polemiche generali della maggioranza, è riuscito ad impedire che il colonnello tenesse il discorso programmato nell’aula del Senato. Sarebbe stata la morte della democrazia italiana. Per carità di Dio, fosse venuto in visita il comunista Castro qualche parlamentare del Pdl si sarebbe incatenato in Piazza Colonna, ma Gheddafi, in quanto compagno di merende del nostro premier, non si tocca.

Berlusconi si è persino scusato con la Libia per gli anni del dominio coloniale. Personalmente non riteniamo che l’Italia debba scusarsi per azioni poste in essere oltre mezzo secolo fa da una dittatura che opprimeva e teneva in giogo il nostro paese, prima ancora della Libia. Senza tenere poi conto delle rappresaglie libiche degli anni successivi nei confronti dei cittadini italiani. Le scuse, peraltro, andrebbero fatte alle popolazioni vessate, non ad un dittatore che si permette di giustificare il terrorismo internazionale e che indottrina i suoi successori all’odio verso l’occidente. I parenti di Gheddafi infatti non sono da meno: uno dei figli, trattenuto qualche tempo fa dalle autorità svizzere, aveva auspicato la cancellazione della Confederazione Elvetica dalle cartine geografiche. Assurdo.

I rapporti con la Libia, purtroppo, sono questi. Oggi gli accordi sono siglati ed il nostro paese è costretto a rispettarli (nella vana speranza che la controparte faccia altrettanto). Pattugliamento congiunto, dicono loro. In realtà l’Italia si impegna a costruire infrastrutture nel paese africano e fornisce motovedette ai libici, che loro utilizzano per finalità personali - come ad esempio fermare i pescherecci italiani in acque internazionali, in barba alle più elementari norme di diritto internazionale - non certo per impedire l’esodo degli immigrati clandestini verso le nostre coste, grosso affare per molti schiavisti di quelle parti.

Proprio adesso, nel momento in cui le relazioni internazionali tra Libia e comunità internazionale sono (giustamente) ai minimi storici per il caso Al-Megrahi - sembra proprio che quest’estate la giustizia abbia deciso di abdicare, visto il trend di liberare terroristi sanguinari: Fioravanti docet - il nostro Presidente del Consiglio ha deciso di non rinunciare alla visita a Tripoli. Ciò non bastasse, il Ministero della Difesa ha gentilmente offerto (tanto paga Pantalone) un’esibizione delle Frecce Tricolori in occasione dei 40 anni di governo (o dittatura, il nostro non si offenderà di certo) del colonnello Muhammar Gheddafi. Di tutta risposta le autorità libiche hanno richiesto all’Aeronautica Militare Italiana l’utilizzo di fumogeni verdi in luogo di quelli classici tricolore. Al secco diniego ricevuto, hanno risposto osteggiando le esercitazioni della nostra pattuglia acrobatica.

Gheddafi o meno, possiamo affermare senza alcun timore di essere smentiti che la politica estera italiana - a differenza di quanto vogliono farci credere i propagandisti della maggioranza - con il governo Berlusconi III ha veramente toccato il fondo del barile.

Alessio Lannutti

lunedì 31 agosto 2009

L'estate sta finendo, le polemiche no


In estate, si sa, l’attività istituzionale viene sospesa per un breve periodo allo scopo di consentire agli esponenti dei vari partiti politici - vogliano i Lettori scusare il gergo calcistico utilizzato a sproposito - di andare in “ritiro” per prepararsi al meglio ad una nuova stagione politica. I toni si smorzano e gli animi si placano, o almeno questo è ciò che dovrebbe accadere.

Allo stesso modo, si sa altrettanto bene che i vari mezzi d’informazione, anche ad agosto, hanno l’incombente necessità di riempire le proprie pagine/i propri spazi radiotelevisivi per mettere in condizione i vari redattori, collaboratori, dipendenti, di portare a casa la sudata “pagnotta”. Fortunatamente, anche in piene vacanze, la mania di protagonismo di alcuni politici nostrani - totalmente incuranti dei pericoli estivi, delle temperature africane delle nostre città e dei temibili colpi di sole - viene in soccorso dei poveri lavoratori dell’informazione. Così, i toni del dibattito si spostano sui registri del tragicomico e del grottesco ed il giornalismo finisce per sconfinare in terreni che mai avrebbe immaginato di calcare in altri periodi dell’anno. Abbiamo assistito ad improbabili batti e ribatti sul ruolo del professore di religione negli scrutini, sulla rappresentatività dell’Inno di Mameli, sulle capacità scolastiche del figlio del Senatur, giungendo addirittura ad inscenare una sorta di campionato - contest, direbbero gli anglofoni - dell’intolleranza, per decretare una volta per tutte l’esponente leghista più ostile nei riguardi degli immigrati clandestini (per la cronaca, gara vinta da Borghezio dopo i tempi supplementari).

Del resto, durante le vacanze la questione è in questi termini: il telegiornale si guarda perché concilia l’appetito - o il sonno, dipende dai punti di vista - ed il quotidiano si compra soltanto per il sudoku, o giù di lì. La vita continua lo stesso. Ma l’estate è un po’ pazzerella e spesso i giornalisti stessi prendono in mano l’iniziativa ed escono fuori dalle righe con dichiarazioni shock, arrivando in qualche occasione persino a turbare il mondo dei media e della politica stessa con i propri contegni.

Il gradino più alto del podio in occasione del galà dell’informazione trash dell’estate 2009 va sicuramente riservato a Vittorio Feltri, fresco (ma non troppo) direttore del Giornale, quotidiano di proprietà della famiglia Berlusconi. Il nostro è riuscito in pochissimi giorni ad incrinare nuovamente i rapporti tra il premier e la Chiesa - con l’annullamento da parte della Santa Sede della cena riparatrice Berlusconi-Bertone - e ad infuocare il dibattito politico appena sopito.

Rimanendo sempre dell’opinione che appaia alquanto bizzarra la necessità di un avallo da parte della Chiesa nei riguardi della vita privata di una persona, chiunque essa sia, ricapitoliamo ai Lettori meno attenti - e chi può biasimarli visto il periodo vacanziero? - le vicende trascorse. Nelle scorse settimane alcuni media italiani ed esteri hanno portato a conoscenza dell’opinione pubblica la vita dissoluta di Silvio Berlusconi, documentando comportamenti apparentemente sorretti da una condotta immorale. L’Avvenire, quotidiano vicino alla Chiesa cattolica, si è immediatamente schierato contro il Presidente del Consiglio, ritenuto reo di portare avanti uno stile di vita non consono alla carica ricoperta. Il nostro premier ha risposto agli attacchi dei vari mezzi d’informazione attraverso le vie legali e con dichiarazioni pubbliche, sia in televisione che sulla carta stampata, prendendo particolarmente in considerazione l’operato de l’Avvenire. A questo punto Vittorio Feltri, neo-direttore della “Pravda” di casa Berlusconi, ha ben pensato di venire in aiuto del proprio mentore con una sconsiderata e ficcante invettiva contro l’Avvenire ed il suo direttore Dino Boffo, millantando soffiate da parte di sedicenti “gole profonde”, pescate chissà dove in qualche recondito meandro del sistema giudiziario italiano, ed etichettando il collega come un omosessuale (fin qui, se non fosse che il collega dirige l’Avvenire, non ci sarebbe nulla di male) e per giunta molestatore. Ovviamente le veline passate al Giornale erano prive di fondamento e le notizie pubblicate del tutto campate in aria. Nihil sub sole novi.

Forse, qualcuno lassù sta già rimpiangendo Mario Giordano.

Alessio Lannutti

mercoledì 22 luglio 2009

Recensione a Spuma sulle spighe 2 della Compagnia Anime di Carta in un giardino di Cristallo


Regia: Emanuela Petroni

Dramma di cupa e sobria potenza esistenziale, privo di indulgenze, preciso, quello messo in scena dalla Compagnia Anime di Carta per la Regia di Emanuela Petroni. Emerge subito dalla coralità di insieme di trovarsi al cospetto di un registro teatrale sperimentale dove però la fedeltà al testo si enuclea in tutta la sua centralità nella buona gestione dei singoli ruoli attoriali che danno l’impressione di essere parte di un "documentario fotografico" dove la realtà diviene dato oggettivo e si sostanzia di una locuzione temporale in continua sospensione.

Ed è proprio nello stallo apparente che in rivoli si distilla al tempo di una clessidra inteso come logos che risiede il fulcro dell’opera di Garcia Lorca, sapientemente riadattata dalla giovane regista reatina. Il concetto della casa è magistralmente alterato, quindi non sinonimo di focolare, unione, amore comprensione ma prostrato alla prigionia esistenziale e storica alla quale Bernarda assoggetta le figlie, spietatamente come personificazione di quella figura dittatoriale alla quale Garcia Lorca guarda con orrore e che di li a poco si sarebbe imposta in Spagna.

Da sottolineare è la compressione dello spazio scenico che se in prima battuta potrebbe risultare proibitivo in quanto la recita si svolge all’aperto, in secondo luogo risulta invece estremamente efficace in quanto la buona sincronizzazione degli attori isola bene la figura di Bernarda che imperiosa e spietata troneggia al centro, mentre le figlie obbligate da lei stessa a vestire a lutto sono disposte in forma di mezza luna attorno, quasi a richiamare la natura genitrice del cerchio che a mio avviso non si chiude giustamente in quanto il destino ha frantumato il legame genitoriale.

Le donne che occupano la casa di Bernarda Alba sono nane, costrette in una sorta di amputazione fisica che è sintomo della menomazione morale, e le attrici, recitando in ginocchio, subiscono una costrizione corporale che dà visibilità alla prigione psicologica dei personaggi, una coartazione carceraria che serve a instaurare disagio, nella concisa intuizione della regista Emanuela Petroni.

Dal punto di vista recitativo è apprezzabilissima l’interpretazione di Bernarda, pulita nella dizione e con una buona entratura in generale, mentre potrebbe essere più incisiva nell’uso del bastone che rappresenta il potere autoritario e quindi necessitava di maggiore autorevolezza poiché è proprio l’atteggiamento arrogante che fa si che le figlie ardano di passione interiore che non esiste dittatura in grado di frenare e tanto meno di controllare.

Di notevole spessore risulta l’interpretazione della vecchia madre pazza, lucida nella sua follia senile che vede la casa dunque come trappola, mondo dei conflitti segreti, dei rancori covati, ma che, tuttavia, dovrà preservare la facciata esterna della rispettabilità, per un confronto senza ombre con la comunità. Bellissimo l’iniziale monologo di quest’ultima che catalizza in se l’elemento estetico nell’atto di plasmare una statua dove l’attrice inizialmente è elemento neutro per poi forgiare costantemente l’ immagine di se coniugando in maniera esemplare quei due elementi quali teatro ed arte dove risiede non soltanto il percorso della vita ma il suo stesso futuro in quanto essa scopre e soddisfa nuovi bisogni e piaceri.

Immobilizzate nell'involucro della loro condizione di donne, non conoscono la Donna, la fisicità, la vita, ma provano ad immaginarla ed è quì che assume valenza il ruolo di Ponzia, l'unica che sa realmente guardare dentro di loro e che le spolvera un po' del grigiore in cui sono cresciute.

La Ponzia affonda le mani nel sangue delle ragazze, tastandone l'amore, l'odio, il rancore, la rabbia, l'invidia che ribolliscono nelle loro vene. Un ruolo dove l'attrice della compagnia Anime di Carta è molto brava nei toni recitativi di grande peso espressivo. Tensioni che non possono fare a meno di fuoriuscire, esplodendo nella violenza degli sguardi e nella crudezza delle parole. I respiri soffocati, i sospiri rassegnati, diventantano calore sprigionato, misto ad un'afa opprimente incontenibile che rischia di far sciogliere le pareti e di far dilagare la verità all'esterno.

Ma le mura della Casa di Bernarda Alba, ispessite da anni di dispotismo, di repressioni, di egoismo, di parvenze e di ipocrisie, non crollano e la Verità vi morirà all'interno insieme a Bernarda, che come un simbolo cui neanche la memoria deve sopravvivere verrà ricoperta dagli attori come in un processo iniziatico di scialli. E' la morte che le figlie salutano lierando una nuova civiltà.

Raoul Bianchini

I giovani e la politica


Della generazione «under 30» sono state date descrizioni più o meno fantasiose dai mezzi dell'opinione pubblica e dal mondo intellettuale. Generazione post-ideologica, bulli e senza educazione civica, protagonisti dell'era delle passioni tristi, frutto avvelenato dell'epoca televisiva. Quanti non hanno mai sentito gli adulti ragionare in questi termini dell'universo giovanile? E i giovani si ritrovamo in queste definizioni, che li descrivono senza punti di riferimento valoriali che non siano quelli trasmessi dai talk show televisivi?

Se queste definizioni sono giuste, e se davvero rappresentano in maniera efficace tale generazione, allora ci troviamo di fronte a dei giovani abbandonati ad un individualismo totalizzante, in cui quello che interessa è esclusivamente la propria affermazione e il soddisfacimento dei propri bisogni personali. Insomma, tanti piccoli tronisti o aspiranti veline alla maniera di “Ricordati di me” di Muccino.

In tale contesto, probabilmente non c'è spazio per la politica, se non in chiave minoritaria o forse riservata a piccole elites. Se i giovani sono tutti bulli o esclusivamente interessati alle scarpe di marca, e se non hanno ideali di alcun tipo, perché dovrebbero essere partecipi di uno spazio pubblico? Forse l'unico momento di partecipazione sarebbe il voto, in alcun modo legato a dei riferimenti ideali, ma solamente all'affidabilità dei candidati o alla particolarità di alcune proposte politiche. E l'unica politica possibile a cui si potrebbe aspirare e su cui un movimento politico guadagnerebbe consenso sarebbe quella del pragmatismo della buona amministrazione.

Questa è l'immagine che in gran parte viene data degli «under 30». E le manifestazioni di cui pure i giovani si sono resi protagonisti nello scorso autunno contro il ministro Gelmini sono state spesso derubricate ad espressione di una minoranza radicale, frutto più di un disagio giovanile che di una consapevolezza politica.

Ma è questo il caso? I giovani rappresentati in questo schema?

Certo forse è vera una cosa di questi ragionamenti. Ed è il rischio del ripiegamento di una generazione nel privato, in una dimensione sociale che diventa apolitica. Si rischia di pensare che la dimensione dell'impegno civile sia inutile perché priva di concretezza e di effetti reali sulla vita delle persone. Un ripiegamento non tanto quindi per una presunta mancanza di valori civili tra i giovani, quanto per l'assunzione piuttosto radicata nella società che un cambiamento profondo in questo paese la politica e in particolar modo i partiti non sono in grado di portarlo, e che la politica in fondo non è molto più che populismo per attirare consenso.

I partiti appaiono deboli e senza bussola di fronte alla forza e alla concretezza delle lobbies e degli interessi dei potentati. Si rischia di credere che la realtà sociale sia dettata da comportamenti degli individui e dei corpi sociali immutabili nel tempo. D'altra parte nel senso comune, per fare degli esempi, quando si parla di una burocrazia lenta ed inefficiente, di un'istruzione incapace di rispondere alle sensibilità dei giovani, si pensa che questi problemi non verranno mai risolti.

Le questioni aperte di fronte a noi, ed in particolar modo alla generazione «under 30», sembrano talmente grandi che appaiono spesso insormontabili. Costruire davvero la dimensione europea della vita civile, trovare nuove forme di welfare che servano a superare la precarietà, lavorare per avere una pensione dignitosa, ripulire la politica dai fenomeni di corruzione e liberare il nostro paese dal problema della criminalità organizzata, sono solo esempi di problemi vecchi e nuovi di non facile soluzione, che richiedono riforme o processi sociali coraggiosi. Riforme che cozzano contro interessi forti nel nostro paese, e che spesso la politica sembra troppo debole e complicata per affrontare. E quindi le percepiamo troppo spesso come questioni insite nella società, quasi come un peso imposto, condizione accessoria del vivere assieme. Cose da cui non si può fuggire se non magari cambiando paese, perché non c'è modo di cambiarle attraverso processi di emancipazione collettiva. La cultura ci ha abituato troppo al supereroe, con cui ci possiamo identificare ma che possiamo anche ritenere irrimediabilmente lontano da noi.

E allora che senso ha la politica per un giovane, se sembra non riuscire ad incidere sui problemi delle persone e della collettività? Se il problema principale dei partiti diventa vincere le elezioni successive e produrre una mera alternanza del potere nelle istituzioni, allora tutto viene sommerso dal tatticismo della politica mediatica e scompaiono le grandi battaglie politiche.

In quest'ottica però il problema allora non è l'incapacità di una generazione di sentirsi “animali sociali”, ma la debolezza della politica in questo ultimo decennio nell'incidere sulla realtà e sull'immaginario sociale indicando una prospettiva chiara di futuro e sulle priorità che aveva in mente. Una politica spesso troppo astratta, vissuta nel dibattito pubblico esclusivamente attraverso i giornali e la televisione, che non ha chiesto la partecipazione attiva dei cittadini e dei giovani fra questi, ma solo un voto o nel migliore dei casi un supporto da “fan”.

D'altra parte non ci si può stupire, perché sono i partiti stessi che in questi anni hanno spesso teorizzato la fine delle ideologie e la supremazia del mercato sulla politica. Questo in teoria avrebbe dovuto portare sempre più benessere alla collettività. Un mercato sempre più in grado di permeare la società e di ridurre lo spazio delle scelte pubbliche, con la finanza a farla da padrone. Ed in un contesto come questo la politica ha teorizzato la sua inefficacia, riducendosi a buona amministrazione nel migliore dei casi, e quindi ad una contesa su chi fosse in grado di adempiere al meglio ad alcuni compiti fondamentali (portare crescita all'economia, razionalizzare al meglio la spesa pubblica, abbassare le tasse, ecc.).

In altri casi ci si è trovati di fronte ad una presunta contesa sui valori, di cui la polemica sul berlusconismo è stata l'espressione più riconoscibile, e quindi si è ridotto il confronto politico al problema su quale coalizione avesse il tasso di moralità più elevato. Entrambi i temi dimostrano la debolezza della politica nel farsi promotrice di riforme profonde nella società, e tutto questo è dimostrato fra le altre cose da un'incapacità di mobilitare i cittadini se non in chiave prettamente identitaria (la manifestazione PD del 25 ottobre 2008 mi pare un esempio lampante, come lo era stata quella della PDL del 2 dicembre 2006). E chiaramente le giovani generazioni sono state le prime vittime di questa concezione della politica e dei partiti, perché si può dire che proprio negli anni di più intensa debolezza della politica una generazione è cresciuta, si è formata culturalmente e civilmente, e si è avvicinata al dibattito pubblico. Spesso allontanandosene, pensando alla politica come a qualcosa da scrutare col binocolo, in maniera distratta e solo nei periodi pre-elettorali, e relegandola ad aspetto marginale della propria vita.

Allora come fare per riallacciare un rapporto fra partiti e giovani generazioni? Non vi può essere una soluzione a questo rapporto che prescinda dalla questione della crisi della politica nel nostro paese. Anche perché non solo spesso i problemi che vivono i giovani italiani assomigliano a quelli degli adulti, ma soprattutto perché il dibattito politico in questo paese, anche per i canali attraverso cui passa, è fondamentalmente intergenerazionale.

I momenti più frequenti di discussione politica per un giovane sono davanti ad una televisione accanto ai propri genitori. Però forse ricostruire dei partiti credibili e radicati nella società servirebbe più a quella generazione che ai più anziani, per un motivo semplice: i giovani si stanno formando in questi anni, e l'idea che avranno anche in futuro della politica passa principalmente per quello che vivono oggi. Le generazioni precedenti hanno comunque ormai acquisito un'idea sulla politica che gli viene dalla loro esperienza passata, dalla storia di questo paese. E in questo senso continuano, seppur con sempre maggiore disincanto, a votare alle elezioni come dimostra comunque l'alto livello di partecipazione al voto che si registra in Italia.

Quindi, per i giovani soprattutto, serve un nuovo dibattito pubblico e dei partiti che si pongano il problema di una nuova rappresentanza rispetto a questi ultimi anni. Coniugare la presenza nella società (dai territori, ai luoghi di lavoro, alle scuole e le università per le giovani generazioni), le singole proposte sui problemi di questo paese (progetti di legge, azioni amministrative, ecc.), con la capacità di sapere indicare una direzione ideale e una prospettiva di lungo periodo. Perché in questi anni la capacità di saper esprimere proposte di programma sui singoli temi è stata anche buona da parte dei partiti, ed è stata frutto di una seria capacità di analisi dei problemi della società italiana. Per fare un esempio che coinvolge direttamente i giovani, le proposte sulla scuola del centrosinistra, a partire dall'autonomia per arrivare alla riforma dei cicli, erano il risultato di un dibattito importante sulla formazione delle giovani generazioni nella società moderna. Quello che è mancato forse è stata la capacità di saper coniugare tutto questo con una prospettiva credibile di più lungo periodo da offrire ai cittadini. Un elenco di priorità concrete ed ideali, che definisse un progetto per l'Italia. Non un elenco di valori da presentare come carta d'identità e quindi come certificato di sana moralità, ma una cornice ideologica per definire gli obbiettivi da raggiungere, anche in termini ideali.

Pensare che questo non fosse necessario è stato l'errore di questi anni, che ha portato la politica ad essere percepita come inutile in special modo dalle giovani generazioni. Un giovane, se non vede un cammino di fronte a sé che possa essere coronato da obbiettivi da raggiungere, e se non vede delle risposte sul senso di quello che ha intorno, perché dovrebbe percepire come importante la politica e parteciparvi?

Certo, poi tutto questo deve passare dall'astrattezza della discussione teorica alla prassi, che è capacità dei partiti e dei suoi movimenti giovanili di essere presenti nella società con le orecchie drizzate, di elaborare orizzonti che stiano nella storia di questo paese, di costruire partecipazione, iniziativa politica, e mobilitazione sulle proprie battaglie. Non è un passaggio scontato, e passa per il buon funzionamento delle strutture organizzate dei partiti e dei movimenti giovanili e per la capacità delle tante persone e dei tanti ragazzi già impegnati di essere all'altezza delle proprie responsabilità. Se questo accadrà in un prossimo futuro, ne uscirà rafforzata la politica e le giovani generazioni, che vedranno finalmente affrontati con credibilità i loro problemi. In definitiva, ne uscirebbe rafforzata la democrazia nel nostro paese. Nel suo piccolo, ogni iniziativa politica giovanile non può che far bene.

Eugenio Levi

giovedì 16 luglio 2009

Santana a Brescia: spirito sempreverde nonostante vocalist giù di tono e fans…invecchiati


Il tour Europeo di Carlos Santana ha fatto ieri tappa a Brescia, dove in una serata afosa, 30 gradi alle 20:45, circa 4 - 5000 persone hanno potuto ammirare lo smalto ancora lucido dello Sciamano.

Occhi semichiusi, cappello calato quasi a nascondersi, concentrato come un neurochirurgo in sala operatoria o paziente come un sacerdote nel confessionale, Santana si infila nelle sue chitarre a cercarne l’anima, le sfiora, le bussa, le cambia l’un l’altra delicatamente coccolandole, diviene spirito immateriale, afflato musicale, lui stesso anima vera delle sue chitarre. Definire la musicalità di Santana quale rock latino è veramente riduttivo. Il genere Santana merita una sua nozione e una sua menzione indipendente!

Santana parla al pubblico con poche parole per ribadire il suo messaggio, portato concretamente avanti dalla Fondazione Milagros (cui sono stati devoluti 1 € per biglietto), con un messaggio di invito alla compassione, al perdono, invocando pace e amore come fa da 40 anni a questa parte con le sue musiche, le sue parole e soprattutto con le sue opere.

Il pubblico? Beh, il pubblico è un’altra cosa: è una serata calda, il palco di Piazza della Loggia non è pieno, si vedono sedie vuote, ma soprattutto il pubblico è statico, non si eccita neanche nelle prime file, aspetta il passare delle telecamere per elargire un sorriso, ma non riesce proprio a sintonizzarsi con Santana, perde il ritmo non sente le vibrazioni. Vuoi vedere che il pubblico di Santana invecchia e lui no?

Eppure vibrazioni voraci promanano dal placo affollato da ottimi musicisti, Jeff Cressman e Bill Ortiz agli ottoni, Dennis Chambers, Karl Perazzo, Raul Rekow alle percussioni, Benny Retvield al basso e in evidenza su tutti Tommy Anthony alla chitarra elettrica e il tastierista Chester Thompson che quasi ruba la scena a Carlos per come diviene tutt’uno con i suoi strumenti facendoti pensare che da un momento all’altro se lo risucchia la tastiera…

In tanta abbondanza di artisti, Andy Vargas (il vocalist hispano americano) sembra a tratti giù di tono, mentre non male Tony Lindsay, “la pantera nera” come lo definisce Carlos anche se nel complesso - a livello vocale - credo sia mancata qualche voce femminile di supporto.

Il programma ha ripercorso il cammino di Santana da Woodstock Soul Sacrifice, passando per She’s not there, Evil ways, A love supreme, Foo Foo, Smooth, per finire ai grandi successi commerciali Maria Maria, e Corazon Espinado con un omaggio virtuosistico a Rodrigo (concerto di Aranjuez) e qualche scherzo qui e lì come con Besame mucho.

E’ un programma che continua in altre cittá d’Europa da Kitzbuehel in Austria, a Mainz, Straubing, Halle e Dortmund in Germania per finire al circuito di Silverstone il 25 luglio. Non perdetelo!

Raffaele Luise

mercoledì 15 luglio 2009

Toccatemi tutto, ma non il mio Joseph


Roberto Balducci, vaticanista del Tg3, è stato rimosso dal suo incarico. Nel servizio andato in onda domenica 12 luglio durante il telegiornale della sera, aveva definito i presenti in Piazza San Pietro come “quattro gatti che hanno ancora la pazienza di ascoltare il Papa”. Un’uscita sicuramente infelice e in parte non comprensibile, ma - a nostro modestissimo avviso - assolutamente non degna della rimozione del giornalista dall’incarico.

Alle numerose critiche e strumentalizzazioni politiche delle ore successive ha risposto il direttore della testata, Antonio Di Bella, con una tempestiva comunicazione in bacheca: ''a partire da oggi il collega Roberto Balducci non seguirà più il Vaticano''. Nonostante le scuse formali presentate dall’autore della battuta - sicuramente di dubbio gusto - e la presa di posizione in difesa del collega da parte del Comitato di Redazione del Tg3 non c’è stato nulla da fare e la decisione è apparsa immediatamente irremovibile.

Quest’ultimo evento è soltanto una goccia nel mare ed è sempre più evidente l’influenza esercitata dal potere cattolico sul mondo dell’informazione. Intendiamoci, il Papa merita il massimo rispetto da parte di tutti, come la Chiesa Cattolica stessa ed i rappresentanti delle altre religioni presenti in Italia. Ma questo non deve comportare un servilismo assoluto da parte di istituzioni, mezzi di informazione, cittadini alle logiche dell’istituzione ecclesiastica. L’Italia è uno Stato sovrano e laico, libero da qualsiasi ingerenza del potere temporale: questo principio andrebbe ribadito, rimembrato a chi di dovere ed inciso nel bronzo per le generazioni future.

Balducci ha fatto dello spirito in maniera inopportuna, è innegabile. Ma non significa che debba perdere il proprio posto per questa futile motivazione. Se in Italia tutti i giornalisti che fanno humour, criticano, o peggio ancora diffamano - non importa se nell’ambito o meno di un servizio pubblico - dovessero essere sospesi, rimossi dall’incarico o licenziati, allora sì rimarremmo davvero in quattro gatti a svolgere questa professione.

Il problema è il rapporto Chiesa-media, senza ombra di dubbio in equilibrio precario su di un filo di lana. Spesso l’opinione pubblica cattolica aggredisce letteralmente giornalisti ed esponenti del mondo dello spettacolo con idee difformi dalle proprie, come se non avessero una spiritualità e fossero tutti quanti degli aridi atei, peccatori e materialisti.

Possiamo portare vari esempi a dimostrazione. La simpaticissima imitazione di Benedetto XVI fatta da Maurizio Crozza su La7, risalente ormai a qualche anno fa, è stata duramente attaccata dagli ambienti vicini al Pontefice e dagli esponenti politici del mondo cattolico. Stessa sorte per il “Decameron” di Daniele Luttazzi qualche tempo dopo, addirittura cancellato dalla programmazione.

In politica estera, invece, dopo la discutibile dichiarazione di Ratzinger sulla contraccezione come male che “snaturerebbe il senso dell’unione” - per di più esternata in Africa, dove l’AIDS è una piaga sociale che miete un numero spropositato di vittime ogni anno - e le critiche ricevute all’unanimità da fonti più disparate, l’entourage del Papa si permise addirittura di attaccare il governo belga, colpevole di aver criticato i discorsi del Pontefice.

La realtà è che la massima istituzione ecclesiastica è oggi un moloch intoccabile, uno dei pochi nell’ambito dell’informazione italiana ed europea, forse secondo soltanto a quello rappresentato dalla comunità ebraica.

Quest’altro aspetto meriterebbe una trattazione a parte, per dimostrare che in Italia c’è sì libertà d’informazione, ma è una libertà condizionata. Provate ad aggettivare in maniera critica lo Stato di Israele, o anche soltanto lodare un singolo aspetto - vanno bene pure il clima o la gastronomia - di qualsiasi Stato ritenuto ostile e preparatevi ad un’autentica pioggia di invettive ed accuse di antisemitismo e nazismo da parte dei più accaniti esponenti dei vari consessi ebraici italiani. Qualsiasi riferimento, anche il più casuale ed indiretto, provocherebbe una reazione che sarebbe addirittura eufemistico e riduttivo definire spropositata. E per fortuna siamo in democrazia.

Le derive estremiste e radicali, in ogni campo, dalla politica alla religione, passando per l’economia e l’informazione, non portano a nulla di buono, soltanto alla creazione di barriere e divisioni tra gli uomini. Se non c’è dialogo, se non c’è rispetto per l’opinione altrui - e Voltaire ai giorni nostri si rivolterebbe nella tomba di 360 gradi, quasi come un kebab sul girarrosto - se non c’è libertà di informazione e di pensiero, non può esistere la convivenza serena fra i vari popoli che abitano il nostro pianeta.

Alessio Lannutti

Roma capitale dello sport


Il 2009 è stato un anno che ha visto Roma muoversi come protagonista dello sport. La nostra capitale è stata infatti consecutivamente selezionata come sede di ben tre eventi sportivi di caratura internazionale, ed altri meno noti (Euro Beach Soccer 09, Circo Massimo) ma altrettanto significativi per rendere apprezzabile l'ottima disponibilità dimostrata dalla città a presentarsi come teatro d'elite, per spessore del contesto urbano e per le buone capacità organizzative riscontrate in tutte le manifestazioni svoltesi.

Una finale di Champions League (giocata allo Stadio Olimpico, e vinta dal Barcellona), l'ormai classico Golden Gala per l'atletica leggera (con presenza di atleti di livello mondiale, come Tyson Gay e Asafa Powell), e il tanto atteso Mondiale di Nuoto Roma 09 che si terrà dal 17 luglio fino al 2 agosto, hanno dimostrato che Roma città non ha nulla da invidiare a capitali europee più blasonate: sicurezza, qualità organizzativa e buona presenza di pubblico appassionato hanno reso impeccabile il perfetto svolgersi di questi eventi, e con in più il forte calore che solo una città italiana riesce a manifestare indistintamente dalla nazionalità dei protagonisti in scena.

Roma ha dato un ottimo esempio di sportività e disponibilità. La cultura dello sport è storicamente ben presente, fondamentale, in ogni società sviluppata che apprezzi il vivere bene e la partecipazione sociale ad attività comuni; per queste ragioni, vero significato del concetto "sport" (che dall'inglese, ricordiamolo, significa "divertimento"), ci auguriamo che l'attuale amministrazione ed anche le successive, indistintamente dall'appartenenza politica, tengano sempre un occhio di riguardo sull'ambiente sportivo della capitale, con più incentivi e marcata promozione anche e soprattutto per lo sport di livello amatoriale, non solo per eventi di spessore già affermato, per consentire a chiunque di poter liberamente praticare in sicurezza l'attività che più lo appassiona, e anche perché, ricordiamolo, i campioni del domani, che parteciperanno ad eventi più ambiti, i nuovi Lionel Messi, Tyson Gay e Michael Phelps nascono ed hanno bisogno di crescere in ambienti sportivi sani e che siano liberamente aperti a tutti.

Marco Montoro

martedì 14 luglio 2009

Facebook: da social network virtuale a social network reale


Facebook: il più grande social network della rete internet in cui milioni di persone instaurano rapporti di amicizia, dialoghi, emozioni tutto in maniera virtuale, dietro i sensori dei bit del computer. Tanto se ne è parlato e tanto se ne parlerà, tanti saggi sociologici verranno scritti per analizzare il fenomeno che ha talmente catalizzato la vita di numerosi utenti cibernetici da apparire con il suo logo in una delle prove di esame della maturità appena trascorsa. Cosa accadrebbe però se il virtuale dovesse un giorno materializzarsi e diventare reale e concreto?

Dovesse cioè uscire dallo schermo e dalla tastiera del pc e catapultarsi nelle sembianze di persone in carne ed ossa? A parlarne così sembra cosa lontana dall'accadere, ma da qualche mese per un gruppo di facebook dal nome alquanto coraggioso - “Salviamo il Lago Albano” - sembra proprio essersi verificato il salto di qualità ed il passaggio dal social network virtuale a quello reale.

Il gruppo, nato per volontà del suo fondatore Luca Nardi, conta più di 2000 iscritti e nel mese di marzo, superata la fatidica soglia delle migliaia di adesioni, decide di convocare una riunione nella cittadina dei Castelli Romani di Albano. La riunione ha avuto un solo scopo: tentare di avviare un serio lavoro sul territorio e salvare, nel vero senso della parola, il bacino lacustre su cui si affaccia la residenza estiva del pontefice, ormai da anni sottoposto ad un forte inquinamento e ad un continuo e perpetuo abbassamento.

In quattro mesi di strada ne è stata fatta e di azioni ne sono state portate a compimento parecchie, prima fra tutte quella di smuovere le coscienze. Così infatti Luca Nardi, fondatore del gruppo virtuale “Salviamo il lago Albano”, definisce l’intento principale del lavoro che sta portando avanti insieme ad altri cittadini dei Castelli Romani per la tutela del bacino lacustre di Albano e Castel Gandolfo: “Vorremmo essere una leva sulle discussioni politiche soprattutto per favorire una pianificazione urbanistica più attenta sul territorio ed evitare le già forti ripercussioni sull’area verde dei Castelli Romani il cui centro è rappresentato proprio dal lago di Albano. E' necessario che ci sia una cultura civica nella tutela del lago. Bisogna combattere l'illegalità e l'abusivismo. Ci sono circa 40000 pozzi abusivi che prelevano acqua dalla falda di alimentazione del lago provocando un aumento della concentrazione dei metalli e inoltre bisogna frenare i prelievi diretti che creano l'abbassamento delle acque del lago. Inoltre la mancanza di servizi e di infrastrutture ha provocato una disaffezione dei cittadini del luogo verso il lago e il suo destino e quindi per questo la nostra mobilitazione vuole far riflettere la cittadinanza sulla questione.

"Il gruppo “facebookiano”, dopo una giornata di mobilitazione a giugno, un primo passo concreto lo ha ottenuto anche sul piano istituzionale inviando una lettera formale a tutti i sindaci dei paesi dei Castelli Romani chiedendo con parole forti una presa di posizione in favore di politiche ambientali più serie.

Il testo della lettera che riportiamo qui di seguito, si chiude con una firma inusuale per una lettera istituzionale che ci fa capire quanto la rete e i social network abbiamo la forza di riunire persone e portare avanti un obiettivo, magari molto più dei canali tradizionali di rappresentanza, delle istituzioni e dei partiti. Una firma di un gruppo virtuale che sta portando avanti nel concreto istanze reali.

Francesca Ragno



Cari Sindaci,

il gruppo, nato su Facebook da qualche mese e con oltre 2000 iscritti, vi chiede pubblicamente di intervenire affinché si ponga in atto una drastica interruzione dell’urbanizzazione e del consumo di territorio dell’area Castelli Romani.

Molti cittadini sono ormai stanchi di assistere quotidianamente alla deturpazione ed all’abuso di territorio che stanno irrimediabilmente compromettendo l’area dei Castelli Romani ed altri oltre a noi si stanno organizzando in movimenti spontanei di opinione.

Voi siete perfettamente consapevoli che l'area del lago e dei Castelli è già in fase di dissesto idrogeologico, il patrimonio paesaggistico e artistico rischia di essere irreversibilmente compromesso, l’agricoltura scivola verso un impoverimento senza ritorno, le identità culturali e le peculiarità di ciascun territorio sembrano destinate a confluire in un unico, uniforme e grigio contenitore indistinto. Il consumo di territorio nell’ultimo decennio ha assunto proporzioni preoccupanti e una estensione devastante. Pur in presenza di un sensibile calo demografico della popolazione italiana negli ultimi vent’anni, il nostro Paese ha cavalcato una urbanizzazione ampia, rapida e violenta. L'area intorno al lago Albano non si è sottratta a questo scempio dell'ambiente e a questa urbanizzazione incontrollata.

Anche da noi le aree destinate a edilizia privata, le zone artigianali, commerciali e industriali si sono moltiplicate ed hanno fatto da traino a nuove grandi opere infrastrutturali . Questa crescita senza limiti considera il territorio una risorsa inesauribile, la sua tutela e salvaguardia risultano subordinate ad interessi finanziari spesso solo speculativi: un circolo vizioso che, se non interrotto, continuerà a portare al collasso intere zone e regioni urbane dando vita a quella che si può definire la “città continua”.

Dove esistono paesi, identità culturali, il rischio è a breve che si trovino immense periferie urbane, quartieri dormitorio e senza anima; i Castelli romani potrebbero di questo passo diventare un unicum indifferenziato con la periferia romana. Ecco allora che il risparmio di suolo e la cosiddetta “crescita zero”, cioè indirizzare il comparto edile sulla ricostruzione e ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio già esistente, è la vera soluzione alla cementificazione diffusa che reca con sé la desertificazione dell'ambiente, la minore penetrazione dell'acqua nel terreno, la conseguente perdita di risorsa idrica e dunque, anello finale ed evidente come si vede, l'abbassamento del livello di un lago come quello di Castel Gandolfo che oltre ai prelievi diretti (che andrebbero dimezzati) viene quotidianamente emunto da decine di migliaia di pozzi (quelli accertati) che abusivamente attingono alla sua acqua.

Le nostre materie prime sono i laghi, i boschi, le campagne ed i vigneti, il patrimonio archeologico ed i centri storici.

Fermiamo pertanto la distruzione e la perdita di identità, creiamo insieme una vera e nuova idea di sviluppo incentrata sulla rivalutazione e la riqualificazione ambientale, paesaggistica ed infrastrutturale del nostro territorio.

Avremo cultura, formazione, opportunità di lavoro e potremo scrivere una storia positiva per le generazioni che verranno.

Promuoveremo pertanto una raccolta di firme rivolta a voi Sindaci dei comuni dei Castelli Romani affinché:

A) ripensiate i piani regolatori e le lottizzazioni previste facendo una precisa “mappatura” di case sfitte e capannoni vuoti, promuovendo una moratoria dei piani regolatori nell'ottica di un nuovo modello di sviluppo che tenga conto dell'uomo e della natura, prima che del cemento.

B) vietiate la pratica degli accordi di programma con i privati e il cambio di destinazione d'uso dei terreni (es: da agricolo a edificabile)

C) provvediate a costituire subito una commissione di studio scientifico-istituzionale con la finalità di elaborare una normativa (all’interno delle leggi delle autonomie locali e del decentramento federalista e della sussidiarietà) che renda istituzioni sovracomunali di sensibilità elevata in campo ambientale, fondamentali (anche se non esclusive) nell’indirizzo delle politiche territoriali. Di detta commissione si propone debbano far parte rappresentanti dei comuni, del parco dei castelli ed un congruo numero di esperti nella programmazione e salvaguardia ambientale

D) coordiniate in una conferenza intercomunale l'uso dei fondi regionali destinati alla tutela dell'ambiente e spesso invece stornati per ulteriori opere di cementificazione del territorio

E) promuoviate e rendiate pubblici tutti gli studi e le analisi in loro possesso commissionati in questi anni a tecnici dell'ambiente che spesso hanno evidenziato la non ulteriore sostenibilità di una urbanizzazione così contraria all'equilibrio naturale dei Castelli romani.

F) ascoltiate i cittadini, le organizzazioni ambientaliste, le ragioni di un nuovo modello di sviluppo e pensiate in modo nuovo a politiche urbanistiche al centro delle quali ci sia la qualità della vita delle persone e il rispetto diffuso per l'ambiente ed il paesaggio

G)facciate dunque votare ai vostri consigli comunali un ordine del giorno aderente agli obiettivi di questo documento, sottoscrivendo quindi l'obiettivo di bloccare il consumo di suolo, costruire esclusivamente su aree già urbanizzate, salvaguardando perciò in questo modo concreto e forte il patrimonio storico paesaggistico del lago Albano e dei Castelli romani.

Speriamo pertanto che questo nostro appello venga da voi ascoltato e che a breve termine vorrete aprire un dibattito aperto e propositivo e fornire a noi cittadini comuni dei Castelli Romani, risposte concrete che salvaguardino la nostra qualità della vita, la nostra salute, l’ambiente in cui viviamo. Grazie.


GRUPPO FACEBOOK ‘SALVIAMO IL LAGO ALBANO’

Fahrenheit via Appia nuova


Il 12 luglio 2009 sarà ricordato da molti romani come il giorno dell’incendio di via Appia nuova. Nel primo pomeriggio le fiamme sono divampate da un autodemolitore e da un deposito giudiziario della Polizia Municipale siti in via dell’Almone, proprio all’incrocio con via Appia nuova. Comprensibile la preoccupazione dei cittadini e delle Forze dell’Ordine stesse. L’incendio ha infatti raggiunto in poco tempo dimensioni considerevoli portandosi a ridosso delle abitazioni e del Parco della Caffarella, polmone verde del quartiere Appio Latino.

Le continue esplosioni a catena di pneumatici, serbatoi, bombole del GPL delle autovetture parcheggiate hanno allarmato la popolazione residente nelle zone limitrofe. Le strade sono state immediatamente chiuse al traffico ed alcuni cittadini evacuati dall’area interessata.

I Vigili del Fuoco hanno impiegato tutta la notte per avere la meglio dell’incendio, impiegando diverse autopompe, un elicottero e dei mezzi speciali di stanza all’aeroporto di Ciampino. I pompieri sono stati costretti ad avanzare provvedendo allo spegnimento dei singoli autoveicoli, proprio per evitare eventuali ulteriori esplosioni che avrebbero potuto mettere a rischio l’incolumità degli uomini. Le autorità non escludono ancora la natura dolosa dell’evento.

Scene da film in un torrido pomeriggio romano di (quasi) mezza estate. La nube di fumo era visibile praticamente da ogni zona della città, oltre i limiti del Grande Raccordo Anulare, in un’atmosfera che non faticherei a definire surreale.

In un’epoca come la nostra, dove al minimo segnale di pericolo istintivamente perdiamo il lume della ragione per cercare un riparo, facendo prendere il sopravvento a paura ed avventatezza, un evento di tale portata ha sicuramente turbato la psiche di un certo numero di cittadini, specialmente di quelli direttamente interessati, residenti a pochi passi dal luogo del grande incendio. Pur non avendo ancora raggiunto i livelli di isteria collettiva dei paesi anglosassoni - dove uno zaino abbandonato fa scattare reazioni ipocondriache da parte dei presenti ed una qualsiasi “combustione spontanea” viene scambiata per un attentato terroristico di matrice fondamentalista (attenti a non fumare mai in luoghi chiusi, potrebbero scambiarvi per un seguace di Osama Bin Laden) - nelle varie fasi dell’incendio ci siamo difesi benissimo. A dimostrazione che a volte è proprio l’irrazionale a provocare tendenze maniacali negli individui.

I romani hanno letteralmente tempestato i centralini dei Vigili del Fuoco con un ritmo martellante di 60 telefonate al minuto, effettuate dalle zone più disparate della capitale. Magari, per i curiosi sarebbe stato più opportuno accendere la tv, la radio, collegarsi al sito dell’Ansa, al limite - qualora ritenuto strettamente indispensabile - fare quattro passi in direzione della nube di fumo, piuttosto che occupare per scopi talmente frivoli e voyeuristici delle linee destinate alle emergenze. Da buoni italiani, oltre a telefonare ai Vigili del Fuoco quasi fossero un numero utile al quale chiedere informazioni, indirizzi e previsioni del tempo, molti hanno ben pensato di recarsi direttamente sul posto in una sorta di pellegrinaggio nel luogo dell’evento. Famiglie, anziani, coppiette. Erano tutti presenti, raminghi per via Appia come formiche impazzite. Alcuni probabilmente avevano fatto svariati chilometri solo per poter dire “c’ero anch’io”. Per la serie, non ci lamentiamo poi se all’estero ci etichettano in un determinato modo, prendendoci pesantemente per i fondelli.

Nell’incendio è rimasto leggermente ferito un pompiere, che fortunatamente se la caverà. Approfittiamo dell’occasione per porgere un ringraziamento al corpo dei Vigili del Fuoco, per il coraggio dimostrato ogni giorno e la solerzia e tempestività negli interventi.

Alessio Lannutti

lunedì 13 luglio 2009

Guido Traversa e la consulenza filosofica


In un mondo in cui a prevalere sono gli “interessi” materiali dell’uomo e si dà valore quasi esclusivo alla rincorsa del piacere, al consumismo, alla soppressione della dignità umana, parlare di consulenza filosofica può apparire del tutto fuori luogo.

Per fortuna, non è cosi, se consideriamo i passi da gigante che questa nuova disciplina ha fatto negli ultimi anni, grazie al contributo determinante di studiosi e filosofi come Guido Traversa e al supporto scientifico di organismi qualificati, come l’Istituto di filosofia e antropologia clinica esistenziale.

All’apparire sulla scena accademica e nella realtà quotidiana di questa nuova “figura professionale” (il consulente filosofico), molti studiosi hanno cercato di circoscriverne i confini e di separarla dagli altri “operatori” che agiscono nel campo della terapia psichiatrica, psicologica, psicoanalitica e del counseling.
La ricerca di una distinzione con altre discipline è stata, però, una forzatura, che non ha tenuto conto e non considera affatto che la filosofia è già di per sè una prassi, una scienza che mira ad una comprensione più vasta e organica della realtà, in cui l’esperienza umana viene considerata nelle sue varie possibilità.

E’ proprio per questi motivi che la consulenza filosofica è stata anche individuata come filosofia pratica o come ontologia applicata, termini che mettono in rilievo lo scopo e l’”essere” della filosofia, che può essere definita come una particolare forma di comprensione delle condizioni esistenziali degli individui o dei gruppi e di quelle situazioni, conflittuali o meno, in cui l’uomo cerca di dare alla sua azione o alla propria vita un senso di compiutezza e di appagamento.

La filosofia, in sostanza, è un modo particolare di sapere e di capire; un metodo “obiettivo” che, contrariamente ai sistemi usati dalle altre scienze, coglie e “lega” tutte le diverse dimensioni dell’oggetto, degli atti o dei fatti a cui ci si riferisce nei processi della conoscenza e dell’esperienza.
In tale logica, la consulenza filosofica non dovrebbe essere finalizzata - principalmente - all’analisi del disagio individuale o collettivo, ma all’individuazione di strumenti concettuali che incentivino le condizioni di benessere della persona, nelle sue varie dimensioni (rapporti sentimentali, rapporti di lavoro,ecc.).

La filosofia, cosi intesa, può considerarsi come un’arte che permetta di distinguere e valutare meglio le condizioni dell’esistenza (da rifiutare se appaiono negative, o da accettare, se positive) e di capire un qualcosa rispetto al quale si deve agire e dove l’agire precede il capire, come è nel caso di quei processi personali, interpersonali o sociali in cui l’uomo sembra aver già acquisito un habitus di adeguatezza a sé e agli altri.

Ciò, generalmente, viene chiamato saggezza, la quale non è altro che la capacità di mettere in atto l’azione giusta al momento giusto.
La saggezza e l’esame dei propri “livelli” di vita, a loro volta, portano quasi spesso a ricercare la pratica di esercizi (anche spirituali) e di metodi riflessivi e di analisi, che hanno lo scopo di evidenziare quei dettagli, accidenti e differenze minime che sono alla base di ogni esperienza.

La filosofia diventa allora, non terapia, ma esercizio continuo di valutazione cognitiva della propria vita, capacità che è intrinseca a tale scienza che, mettendo insieme aspetti logici, ontologici, etici ed estetici, riesce a organizzare in un’unità sistematica una forma organica di pensiero.
Un pensiero che - sorretto dall’analogia, dall’esperienza dell’empatia, dal ruolo della memoria, dalla prassi della responsabilità e dall’analisi delle difficoltà di “esercizio” della libertà - guarda al concetto di identità non in modo univoco, rispetta la disomogeneità della realtà e sa cogliere l’unità nel molteplice e il molteplice nell’unità.

Stabilito il campo di azione in cui opera la filosofia (che non è solo quello delle scienze naturali, ma anche quello delle scienze umane) si può dire che essa ha la finalità di interagire “produttivamente” con il vissuto del singolo individuo.
Per cui, a seconda dei casi, si ha la consulenza filosofica individuale, la consulenza di gruppo, quella indirizzata alle professioni con maggiore carico di responsabilità etica e la consulenza aziendale.

In tutti questi settori, la filosofia attua il cosiddetto “traghettamento” etico, il passaggio, cioè, dall’esperienza vissuta in prima persona (la sfera dell’io) - che non va mai sottovalutata - a quella comunicabile in modo universale (rapporto io-tu), con il risultato di conseguire uno stato di salute e di benessere.Questo permette all’utente della consulenza filosofica di capire che il suo essere non è identico alla situazione di disagio o di conflitto in cui si trova e che questa condizione è una condizione accidentale, che non coincide con la sua identità.

Connessa alla vasta problematica della consulenza filosofica è quella del concetto di volontà, che quasi sempre viene definita come termine in quanto tale.La volontà viene generalmente concepita come un quid che appare nella sfera emotiva e cosciente dell’uomo per indicare una scelta e, nello stesso tempo, come un’astrazione che si perde nel sistema cognitivo umano.
Questo identità tra libertà e volontà deve essere spezzata e ripensata, come ha più volte scritto Guido Traversa, che ha messo tuttavia in luce il ruolo rivestito dalla coscienza in tale meccanismo di interdipendenza.

Per Traversa la libertà non è solo libero arbitrio e volontà. Essa, pur precedendo e rendendo possibile l’arbitrio, cioè la scelta, è anche altro da ciò di cui è condizione.
Prima di una facoltà della sfera emotivo-cosciente dell’uomo, la libertà è la struttura ontologica dell’oggetto stesso su cui cade la scelta della volontà, è la capacità di assecondare, accettare e contemplare una natura che è altro da se stessi.
Il soggetto volente, in quanto libero, non è mai uno, ma è sempre legato con altro da sé.

Giorgio Stillitano