domenica 1 novembre 2009

Uccisi dallo Stato


La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte. (Art. 27 Costituzione italiana)

In Italia, in pieno XXI secolo, è ancora possibile morire per mano dello Stato. Sembra assurdo, a tratti paradossale, ma è così. Circostanze diverse, esiti assurdamente analoghi. Stefano Cucchi era un ragazzo come tanti. Come Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Stefano Sandri e molti altri. Non troverete le loro storie sulle copertine di quotidiani e riviste patinate, dedicate ormai quasi esclusivamente al gossip ed alle diatribe tra gli opposti schieramenti politici. Simili tragedie sembrano interessare soltanto relativamente i mass media, preoccupati di propinare al “popolino” la solita solfa, reiterata ciclicamente fino alla nausea. Finché una notizia vende, viene pubblicata, una volta scemato l’interesse, non se ne parla più. Tali vicende sarebbero irrimediabilmente destinate ad inabissarsi nel mare dell’oblio, se non vi fosse, a tenerle miracolosamente a galla, la sete di verità, di giustizia e l’indignazione delle famiglie delle vittime e di molti italiani per bene.

Stefano era stato fermato a Roma, nel Parco degli Acquedotti, nella notte tra il 15 ed il 16 ottobre perché trovato in possesso di una modica quantità di stupefacenti. Secondo la testimonianza dei familiari, si trovava in piena salute al momento dell’arresto. Stefano muore il 22 ottobre nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, senza che in precedenza fosse stata data la possibilità ai familiari di incontrarlo. Il suo volto è tumefatto, sfigurato. Il corpo presenta evidenti lesioni. Secondo le dichiarazioni delle autorità il giovane sarebbe caduto dalle scale. Tale ipotesi appare però alquanto improbabile agli occhi dei parenti del ragazzo dopo aver visionato le fotografie della salma, scattate in seguito ai rilievi autoptici di rito.

E’ innegabile che chi commetta sbagli, durante il proprio percorso di vita, debba pagare. E’ però altrettanto indubbio che i detenuti, qualsiasi crimine essi abbiano commesso, debbano essere tutelati e rispettati nella propria dignità. Sono anche loro esseri umani, non bisogna mai dimenticarlo. Proprio per queste ragioni è inconcepibile che un ragazzo come tanti, per un reato tutto sommato “veniale”, debba perdere la propria vita. Non è giustizia, è mera barbarie.

Se ciò accade, e si ripete periodicamente nel tempo, in Italia c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Antitesi nell’estate 2009 è riuscita ad entrare nelle carceri italiane riscontrando una situazione, nell’emergenza sovraffollamento, tutto sommato umanamente tollerabile. Tuttavia è innegabile che il sistema carcerario italiano presenti numerose lacune e necessiti di importanti cambiamenti per divenire realmente “rieducativo”.

Lo scandalo della giustizia "lumaca", con i magistrati oberati da carichi di lavoro sovraumani, ne è esempio lampante. Così, mentre mafiosi e camorristi restano impuniti per il mancato deposito delle motivazioni delle sentenze entro i termini previsti dalla legge, troppi giovani si sono trovati a pagare a caro prezzo, spesso con la vita, piccoli errori dei quali la nostra società e noi tutti - nessuno escluso - siamo direttamente o indirettamente responsabili. Nell’amara consapevolezza che quello che è accaduto a questi ragazzi poteva e può tuttora capitare ai nostri conoscenti, ai nostri cari, forse addirittura a noi stessi.

Questo articolo non vuole assolutamente essere un atto di accusa contro lo Stato e - in particolare - contro le Forze dell’ordine italiane, che rischiano ogni giorno la vita per garantire la nostra sicurezza e la possibilità di vivere in un paese il più possibile libero e democratico. Dare un senso a queste morti diventa un obbligo morale per tutti gli operatori dell’informazione, a prescindere dalle opinioni politiche personali. I cittadini onesti e rispettosi della democrazia, certamente la grande maggioranza degli italiani, devono sapere. Chi scrive oggi su queste pagine si sente assolutamente in dovere di mettere l’opinione pubblica a conoscenza dei fatti, per contribuire - nelle nostre limitate possibilità - affinché venga fatta giustizia. Perché fatti simili non si verifichino mai più nel nostro paese e perché i colpevoli vengano perseguiti a termini di legge.

Il dolore, il rimorso, la rabbia potrebbero portare persino a comprendere, se non addirittura giustificare, sentimenti di odio nei confronti delle Forze dell’ordine e delle Istituzioni in generale. Non bisogna assolutamente cadere in una simile tentazione. Bisogna avere fiducia nel proprio Paese e non fare superficialmente di tutta l’erba un fascio. Solo in questo modo potremo scoprire la verità e rendere degnamente giustizia alla memoria di Stefano e degli altri ragazzi, strappati troppo presto all’affetto dei propri cari.

Alessio Lannutti

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