martedì 30 giugno 2009

I dolori del "giovane" Bernard


Povero Madoff, in fondo un po’ fa tenerezza. A volte il mondo sa essere ingiusto con chi ha provato a fare il “furbetto” (o meglio l’indiano, vista la provenienza geografica del celebre finanziere). La storia ci insegna che uno stesso contegno delittuoso può venir giudicato diversamente al variare della latitudine e della longitudine. Così, in maniera del tutto naturale e fisiologica, può accadere che per una stessa fattispecie, segnatamente un’epocale truffa finanziaria a danno di una moltitudine di soggetti, negli USA il nostro “eroe” si becchi 150 anni di carcere - uscirà di prigione nel 2159, alla veneranda età di 221 anni (a proposito, gli auguriamo una lunga vita) - mentre in Italia “furbetti” grandi e piccini si trovino ancora a piede libero, incoraggiati addirittura a sguazzare tra canali televisivi e copertine di riviste patinate, millantando la propria innocenza e flirtando con attricette e soubrette di dubbia moralità. Il mondo è bello perché è vario.

Le foto pubblicate da tutti i media ci mostrano un Madoff pensoso e rassegnato, come non l’avevamo mai visto prima. Sembra persino aver capito la lezione. Ma un banchiere d’affari, degno esponente della peggior schiatta esistente dalla nascita del sistema finanziario, può realmente rinsavire? Nutriamo qualche riserva in merito.

Pochi giorni fa in Sardegna, precisamente a Cagliari, è stata multata una signora ritenuta colpevole di aver nutrito un cane randagio affamato. Bancarottieri e “furbetti”, invece, non solo non vanno mai in galera, non solo non vengono sanzionati, ma dobbiamo pure sorbirceli in televisione e su tutti i giornali, quasi fossero modelli ideali da imitare. Roba dell’altro mondo. In Italia si mangerà pure bene, il clima sarà anche ottimo, ma che prezzo siamo costretti a pagare per avere tutto questo?

Povero Bernie, fosse stato incriminato in Italia adesso godrebbe di grande rilievo mediatico, sarebbe sempre invitato nei locali alla moda, magari accompagnato da qualche scosciata e avvenente signorina. Invece sarà costretto a passare una vita dietro le sbarre: il “giovane” 71enne (in fondo cosa sono 150 anni di fronte all’eternità?) avrà molto tempo per pensare. Uscirà dal carcere soltanto quando le macchine voleranno, l’uomo vivrà su Marte (dopo aver ipotecato la Terra) e Pippo Baudo non condurrà più il Festival di Sanremo.

Intendiamoci, personalmente non permetterei mai che i “furbetti” finiscano in galera. Per carità. Gli augurerei soltanto un quarto d’ora nel campo centrale di uno stadio a giocare a “guardie e ladri” in compagnia di tutti i clienti bancari truffati. Sarebbe una giusta punizione. D’altronde in Italia siamo pessimi imitatori: la prassi del “punirne uno per educarne cento”, una delle rarissime cose buone degli Stati Uniti, ce la siamo fatta scappare. A questo punto una domanda sorge spontanea, forse più di una. Che sia colpa delle carceri italiane? Che le patrie galere appaiano meno accoglienti di quelle d’oltreoceano? Che siano false e tendenziose le famose leggende metropolitane sulla saponetta? Chiedetelo a Madoff…

Alessio Lannutti

sabato 27 giugno 2009

Michael Jackson ci ha lasciati


Troppo spesso il giornalismo di largo consumo si perde nel raccontare la ciclicità e monotonia della vita di tutti i giorni. La logica di mercato viene a prevalere sulla qualità del prodotto editoriale, quasi che l’informazione fosse una misera merce da saper piazzare al primo venuto.

Di fronte ad eventi di notevole rilevanza economica, politica, sociale, culturale, la situazione viene tesa allo spasimo, in qualche caso addirittura esasperata. E’ una corsa contro il tempo. Nel mondo dei media vince il più lesto, non vi è spazio per chi tenta un approccio ragionato agli eventi della quotidianità. Sì cari colleghi, stiamo diventando tutti pseudo-scribacchini che tessono frettolosamente trame su sterili canovacci gettati là alla bell’e meglio.

La terribile notizia della morte di Michael Jackson, che ha sconvolto il mondo della musica e dello spettacolo, non ha fatto - ahimè - eccezione a quanto detto finora. La stampa (italiana in particolare) ha perso l’ennesima occasione per evitare una magra figura. Negli ultimi momenti di vita del "re del pop" alcuni importanti media, quando il condizionale era d’obbligo, hanno ben pensato di fare le illazioni più disparate senza citare le fonti, salvo poi tornare sui propri passi dopo alcune ore.

Riteniamo più rispettoso lasciare da parte cronache “minuto per minuto”, facili polemiche e “coccodrilli” di circostanza da quattro soldi. Il nostro compito è informare ed esprimere un’opinione soggettiva sull’evento, sempre con la finalità ultima di conoscere il pensiero dei nostri lettori. Preferiamo ricordare Michael “a mente fredda”, sorvolando sui dettagli della sua prematura scomparsa. Non siamo inquirenti, né abbiamo la pretesa di esser tali: la ricostruzione di simili eventi spetta esclusivamente alle autorità competenti.

L'aspetto patologico della questione sta proprio nel metodo di approccio alla notizia da parte dei giornalisti. L’interesse di gran parte del mondo dell’informazione è sembrato ricadere più sugli aspetti della vita privata che potrebbero aver cagionato la tragica fatalità, che sulla doverosa celebrazione dell’artista. Probabilmente, qualcuno nella "stanza dei bottoni" deve aver maturato la convinzione che - anche dopo parecchi anni di rodaggio - il principio dello “sbatti il mostro in prima pagina” riesca sempre a far vendere bene.

Michael Jackson era un personaggio controverso. Nel bene o nel male ha sempre stupito e fatto discutere. Non era uno qualunque. Un eterno “Peter Pan” strappato troppo presto alla sua infanzia e gettato in pasto al pubblico, alla critica ed alle enormi pressioni dell’ambiente musicale. Il “re del pop” ha avuto una lunghissima e gloriosa carriera, caratterizzata da un susseguirsi sistematico di alti e bassi. Ha abdicato soltanto di fronte all’inevitabilità della morte, a dimostrazione che lo show business crea dei fenomeni ed al contempo ne segna il destino, fino all’inevitabile declino.

Michael ci mancherà. Lo testimoniano gli innumerevoli messaggi dei fan, provenienti da ogni angolo del globo. La sua musica, apprezzata da persone di tutte le età, ha rivoluzionato il concetto stesso del genere “pop” ed influenzato la produzione successiva.

Personalmente, ritengo condivisibile il pensiero di chi afferma l’immortalità dei grandi personaggi della nostra società. Si muore soltanto quando si viene dimenticati. Se è davvero così, la stella di Jacko brillerà realmente in eterno nel firmamento delle celebrità.

Prima di concludere è opportuno riportare un'altra triste notizia. La morte di Michael Jackson ha fatto passare in secondo piano la scomparsa di Farrah Fawcett, celebre attrice degli anni '70 nota al grande pubblico per il suo ruolo in "Charlie's Angels", stroncata da una lunga malattia. Mi sembra doveroso ricordare anche lei.

Alessio Lannutti

venerdì 19 giugno 2009

La corruzione, prassi consolidata


Nel corso dei vari secoli della storia si sono susseguiti forme di governo, ideali politici, sistemi normativi e sociali alquanto diversi tra loro. Questi hanno contribuito a trasformare, anche radicalmente, il pensiero dell'uomo e viceversa, quasi allo stesso tempo, da esso sono stati mutati. Possiamo affermare che la realtà in cui vive l'uomo è contingente. Lo stesso uomo è contingente ed i mutamenti della realtà e dell'uomo sono, più o meno, reciproci e proporzionali, relativi e connessi. Qual è la realtà dell'uomo? L'uomo è, per definizione, un animale sociale e la realtà in cui vive non è nient'altro che la società. Esistono fenomeni che paiono insensibili a questi mutamenti: un esempio calzante è dato dalla prassi della corruzione.

Cos'è la "corruzione"?

La corruzione è quel fenomeno per mezzo del quale un soggetto titolare di una qualsiasi forma di potere politico – non importa se pubblico o privato - agisce fuori dagli standard normativi del sistema in cui vive favorendo interessi particolaristici, spinto dall'avere in cambio una ricompensa.

Il fenomeno della corruzione convive con l'uomo di ogni tempo ed epoca. Ove vi sia anche un minimo di organizzazione politica vi è corruzione. La corruzione sembra appartenere quindi all'uomo nella stessa misura in cui gli appartiene qualsiasi altra forma di esperienza di vita sociale. Se da un lato la corruzione appare insensibile ai mutamenti sociali, dall'altro, altrettanto insensibile a tali mutamenti è la condanna di tale fenomeno: non esiste ordinamento giuridico che non sanzioni la corruzione quando essa produca effetti discriminatori tra le persone, arrecando danni ad una parte e reciprocamente vantaggi ad un'altra. E’ difficile, dall'altro, giustificare tale condanna quando non è identificabile un soggetto immediatamente danneggiato, senza ricorrere ad argomentazioni di tipo morale alle quali poi ricondurre un effetto giuridico. Per questo motivo esiste anche la tentazione di derubricare la corruzione, riconducendola a quelli che sono rapporti economici sanzionabili solo moralmente. Se a ciò aggiungiamo alcune formulazioni della scienza politica, secondo le quali la corruzione non sarebbe disfunzionale in un sistema sociale, donando a questo la flessibilità economica necessaria per lo sviluppo nel breve periodo (non nel lungo periodo, in quanto ad essere intaccata sarebbe la stessa legittimità del sistema, la risorsa più importante dei sistemi sociali), le tesi a favore della derubricazione della corruzione acquistano anche fondatezza scientifica. Per capire l'illiceità intrinseca della corruzione bisogna spostarsi su un terreno diverso da quello della scienza politica, perché tale illiceità non ha primariamente carattere politico.

La corruzione è ingiusta anche quando si dimostra la sua non nocività.

Ben può essere concepita la corruzione in un tipo di società "primitiva", nella quale gli uomini, scambiandosi tra loro doni, creano nessi di "reciprocità chiusa", ovvero alleanza e garanzia. Colui con il quale non si possono instaurare simili vincoli è solo il "nemico". E' propria della "mentalità primitiva" la logica della reciprocità chiusa, mettendo in rapporto deboli con potenti e creando reciproche aspettative normative: la sottomissione del debole e la benevolenza del potente, la cui violazione giustifica l'uso della forza del potente verso il debole e la vendetta del debole verso il potente.

Tutto questo nel quadro attuale non può funzionare. Oggi la relazione tra potente e debole viene a costituirsi secondo un "principio impersonale di giustizia" e non secondo quella forma di concreta reciprocità personale. Il paradigma della reciprocità chiusa viene così sostituito da quello della "reciprocità aperta”, in cui la possibilità della relazione è un presupposto e non un effetto in cui si generalizza la possibilità di relazionalità interpersonale. Appare così delineato il paradigma del diritto, non del potere, che ha fondamento nella giustizia e non nella benevolenza del potente.

La corruzione desta quindi scandalo e indignazione non perché è concepita come dannosa, ma perché è ingiusta. Va condannata perché infrange la fedeltà e - umiliando la giustizia - svuota di ogni senso il diritto. La lotta contro la corruzione non è lotta per la difesa dello stato in sé, ma è lotta per il diritto, perché il bene che viene ad essere leso non è un bene politico, ma giuridico. Un regime è tanto più democratico quanto più in esso lo spazio del diritto è compresso. La democrazia si fonda sul diritto, cioè sul reciproco riconoscimento dei cittadini come eguali. La corruzione infrange l'eguaglianza fondamentale, portato del diritto. Per la democrazia il problema della corruzione è vitale, poiché essa rende impensabile la sua stessa esistenza.

Gennaro Rizzo

mercoledì 17 giugno 2009

Nasce "Antitesi Online"


La nascita di un nuovo periodico è sempre un evento in grado di suscitare le emozioni più disparate nell’animo di ogni individuo coinvolto nella sua realizzazione.

Nonostante il web sia ormai inflazionato da una miriade di siti a carattere informativo, non riusciamo a nascondere l’emozione e la curiosità per il giudizio che - speriamo vivamente - Voi lettori avrete la gentilezza, ma anche il privilegio, di riservare alla nostra modestissima “creatura” editoriale.

Dietro ad Antitesi c’è un’idea. L’idea che il giornalismo non debba essere necessariamente di parte, ma debba assolvere alla sua funzione principale: essere strumento di mediazione tra la fonte ed il fruitore della notizia. E che senza prescindere da questo importantissimo ruolo debba smuovere le coscienze, far riflettere il lettore, contribuire alla formazione di un’opinione pubblica libera da ogni sorta di condizionamento esterno. Con la consapevolezza che rinunciare del tutto all’esternazione delle proprie opinioni personali - in ogni caso meritevoli di rispetto - in merito ai fatti della quotidianità, equivale a svuotare di ogni significato l’attività giornalistica e tutto ciò che essa rappresenta.

Antitesi vuole avere la pretesa di coinvolgere direttamente Voi lettori, consentendoVi di commentare i contenuti pubblicati, condividere le informazioni, partecipare in prima persona alla realizzazione del periodico. Una specie di “Open Source” dell’informazione, nella quale il lettore/fruitore non è soltanto spettatore passivo, ma diviene collaboratore attivo e protagonista.

Sarebbe segno di ingratitudine concludere la presentazione senza un piccolo ringraziamento nei riguardi di coloro i quali hanno reso possibile la realizzazione del nostro ambizioso progetto. Antitesi può esistere grazie alla collaborazione a titolo gratuito di un gruppo di giovani redattori/collaboratori volontari provenienti da ogni parte d’Italia. A loro vanno i miei ringraziamenti più sentiti.

Alessio Lannutti