domenica 20 marzo 2011

Intervento militare in Libia: necessità imprescindibile o errore imperdonabile?


Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato nelle scorse ore la Risoluzione 1973. L’atto è stato emanato allo scopo di istituire una no-fly zone sullo spazio aereo libico e di porre in essere tutte le misure necessarie a salvaguardare la popolazione locale dagli attacchi dell’esercito del colonnello Muhammar Gheddafi. In parole povere, al di fuori di inutili retoriche e sterili tecnicismi, l’ONU ha legittimato un intervento militare in Libia da parte della coalizione internazionale.

L’operazione - denominata Odissey Dawn (Odissea all’Alba) -, naturale conseguenza delle posizioni assunte negli ultimi tempi dal fronte degli interventisti, ha avuto il placet da parte della quasi totalità dei componenti della più importante organizzazione internazionale, non senza illustri eccezioni. Per di più, vede partecipare, con un ruolo di primo piano, anche altri paesi del mondo arabo, su tutti Marocco, Giordania, Qatar ed Emirati Arabi, presenti al summit di Parigi.

Se le Nazioni Unite hanno esternato una posizione forte, netta, definitiva, inappellabile, tra le altre organizzazioni intergovernative direttamente interessate dalle vicende libiche i pareri sono discordanti e serpeggia il malcontento. L’Unione Africana, che vede al suo interno molti sostenitori del raìs - “Gheddafi è un vero africano”, avevano affermato pochi giorni fa i maliani -, sembra manifestare un atteggiamento quantomeno equivoco, arrivando persino ad imbastire un estemporaneo tentativo di negoziazione con il colonnello. La Lega Araba, invece, che nei giorni scorsi si era dichiarata favorevole ad un intervento internazionale per far cessare la carneficina, ha improvvisamente cambiato idea. E’ stata sufficiente l’enorme mole di missili caduta su obiettivi libici nelle ultime 24 ore. Troppi per una semplice operazione di pace.

Il pomo della discordia è incarnato dalle modalità di azione della coalizione internazionale, anche perché si è passati dalla no-fly zone ai bombardamenti in un batter di ciglia. Comincia a balenare il sospetto che quella che avrebbe dovuto essere un’operazione di peace enforcing sotto l’egida dell’ONU nel paese nordafricano si stia rivelando una vera e propria guerra. “Si vis pacem, para bellum”, scriveva Vegezio. Ma è davvero giusto fare vittime, per creare condizioni di pace? Vedete, le chiamano operazioni di peace keeping, peace enforcing, ma spesso hanno il risultato diametralmente opposto a quello che si erano prefissate. Abbiamo già visto cosa hanno prodotto le missioni UNOSOM I e II delle Nazioni Unite e l’operazione Restore Hope in Somalia. Il fallimento della macchina internazionale ha inasprito il clima di anarchia e radicalizzato l’emergenza umanitaria nel paese. Fuor di metafora, sono state del tutto controproducenti.

In Libia, inutile dimenticarlo, è in atto una vera e propria guerra civile che vede da una parte il dittatore, che detiene il potere nel paese, e dall’altra i ribelli, entità eterogenea non meglio precisata, che si contrappongono al raìs. Le soluzioni, per chi governa, sono di due ordini: o si sceglie la strada intrapresa da Mubarak per l’analoga situazione avvenuta in Egitto, ovvero l’abbandono del paese e l’accoglimento delle istanze degli insorti, oppure quella intrapresa da Gheddafi, la linea dura della repressione. Magari qualcuno cadrà anche dalle nuvole, ma la Libia non ha mai rispettato i diritti umani, i propri cittadini, gli immigrati dei paesi centrafricani (trattati come schiavi) e le convenzioni internazionali. Non è una novità. Per questo motivo, ci devono essere altre ragioni a suffragare l’intervento militare. La guerra interna al paese, le violenze sui civili, le morti innocenti potrebbero essere soltanto un pretesto. Perché allora le Nazioni Unite dovrebbero autorizzare/incoraggiare interventi di analoga portata anche in molti paesi dell’Africa Subsahariana. Ma dove non ci sono risorse, si sa, è del tutto inutile sporcarsi le mani.

Allo stesso modo, per fare un altro esempio, Israele non rispetta i diritti umani del popolo palestinese e nemmeno quelli dei propri cittadini: si veda il caso degli Shministim (obiettori di coscienza), uno status ormai riconosciuto come legittimo e sacrosanto da tutte le democrazie occidentali e che viene invece punito dal governo israeliano con l’incarcerazione. Chi si appella alla superiorità democratica di Israele rispetto ai paesi limitrofi faccia ammenda. Non basta soltanto far finta di essere democratici, bisogna pure esserlo veramente. Israele non rispetta le risoluzioni ONU che gli impongono di abbandonare i territori che occupa militarmente in maniera del tutto illegittima da moltissimi anni, ma mai nessuno ha paventato l’ipotesi di un intervento delle Nazioni Unite, proprio perché è un alleato che fa comodo a tutti. I paesi occidentali che oggi fanno la voce grossa sono gli stessi che hanno fatto sì che in Africa ed in Medio Oriente si determinasse la situazione attuale. Per citare la Bibbia, chi ha orecchie per udire, oda.

Come sia scoppiata la rivolta in Libia - come anche le altre insurrezioni che hanno interessato il Nord Africa ed i paesi arabi - nessuno può saperlo. Allo stato attuale si possono soltanto fare supposizioni. La teoria secondo la quale i popoli del mondo arabo in questo modo manifestino un desiderio di democrazia appare come una soluzione semplicistica - che soltanto noi occidentali possiamo concepire - ad un problema in realtà molto più complesso. Sia ben chiaro, un paese dove la mentalità prevalente è quella secondo la quale è meglio mettere al mondo il maggior numero di figli possibile e farli campare male, perché così portano più stipendi a casa, che farne nascere uno solo e farlo vivere dignitosamente non può avere desideri di democrazia, sarebbe una forzatura logica. La teoria secondo la quale, invece, vi sarebbe una sperequazione economica tra le classi sociali ed in conseguenza un crescente bisogno di generi di prima necessità tra i ceti più bassi sembrerebbe già più credibile, anche se aleggia sempre l’idea che dietro ai focolai di tensione vi sia in realtà lo zampino di qualche paese straniero. Lo spettro del complotto internazionale ha sempre la sua ragion d’essere, la storia ne ha dato dimostrazione. Non sarebbe la prima volta che una nazione di spicco sullo scenario internazionale utilizza la popolazione locale come una pedina per cambiare la classe dirigente al vertice di un altro paese.

La crisi libica è spunto per molteplici riflessioni. Poiché si rischia una nuova Somalia a poche centinaia di chilometri da casa nostra, bisogna porsi necessariamente alcuni interrogativi.

- Chi è Muhammar Gheddafi? E’ la stesso dittatore degli ultimi 40 anni, non è cambiato affatto alla luce delle recenti vicende. E’ un criminale, un terrorista, un nemico della democrazia. In passato ha lanciato missili contro il nostro paese, gestisce in combutta con gli schiavisti africani il traffico di clandestini verso le coste italiane, fa sequestrare autoritativamente imbarcazioni italiane nelle acque internazionali in barba al diritto della navigazione ed alle convenzioni internazionali, ha foraggiato terroristi che si sono macchiati di crimini orrendi, su tutti la strage di Lockerbie. Non vi basta?

La sua dipartita sarebbe una lieta notizia per la comunità internazionale, se non fosse che, assecondando le legittime aspirazioni del popolo libico (principalmente l’aspirazione a liberarsi di lui), secondo l’antico brocardo per il quale al peggio non c’è mai fine, non ci si possa ritrovare a cadere dalla padella nella brace, magari con la Libia guidata da qualche fanatico islamista. Gheddafi, infatti, come tutti i beduini, è tutto fuorché un fondamentalista islamico. Quando vuole apparire tale, lo fa soltanto per entrare nelle grazie di qualcuno. E’ un sedicente musulmano.

- Che valore bisogna attribuire alla minaccia di rappresaglie nei confronti del mondo occidentale, in particolare dello Stato italiano, da parte di Gheddafi? C’è un detto che dice: can che abbaia non morde. Se pensiamo alla minaccia militare, le forze libiche non hanno i mezzi per porre in essere azioni di rilievo nei nostri confronti. L’aeronautica libica è composta da obsoleti caccia di fabbricazione russa e le attuali dotazioni missilistiche non sono assolutamente in grado di raggiungere le nostre isole, neanche quelle più vicine alle coste africane. Figuriamoci lo stivale. Anche se fosse, le nostre forze armate e quelle dei paesi NATO riuscirebbero a stroncare sul nascere un tentativo di questo genere. In verità un rischio c’è, anche se di tipo diverso. Il terrorismo. E’ sufficiente ad alimentare il clima di incertezza ed a rievocare gli spettri di Ustica e di Lockerbie. Nihil sub sole novi, è il cancro del ventunesimo secolo.

- Perché la Francia, storicamente pacifista e parte del fronte dei non interventisti, si è schierata fortemente in favore dell’intervento militare? Vi è chi si domanda se il cambio di rotta sia dovuto soltanto all’avvicendamento al vertice tra Chirac - tradizionalmente contrario ad intervenire direttamente nei conflitti armati - e Sarkozy, o anche ad altre ragioni. Tuttavia bisogna prendere atto che da quando l’attuale Presidente siede all’Eliseo la politica estera francese è cambiata radicalmente (vedi riavvicinamento alla NATO). Se Angela Merkel ha preferito tirarsi fuori dai rischi di un intervento diretto, Sarkò non si è tirato affatto indietro. Anche perché la Francia ha tutto l’interesse a stringere legami economici con un eventuale nuovo governo libico.

- Perché Russia e Cina, membri permanenti del Consiglio di sicurezza, hanno accettato con rammarico la decisione di intervenire militarmente? I due paesi hanno motivato la loro contrarietà appellandosi al principio di non ingerenza negli affari altrui. Tesi inattaccabile e condivisibile. Come sempre, però, gli interessi economici, in qualche modo, entrano in gioco. La Russia, come la Libia, è una grande produttrice di gas e petrolio. Se la Libia è in crisi, alcuni paesi europei non possono provvedere all’approvvigionamento di tali risorse, ergo devono necessariamente rivolgersi ad altri mercati. Quello più pratico parla sicuramente russo. La Cina, invece, ha colonizzato il continente africano in un regime quasi monopolistico: petrolio, risorse, attività economiche. Potrebbe non vedere di buon occhio eventuali tentativi volti a minarne l’egemonia.

- Quali interessi economici sono in ballo per l’Italia? La Libia è il nostro principale fornitore di petrolio e di gas. E’ bastata la crisi - ed il conseguente stop alle forniture - per vedere un’impennata nei costi dei carburanti in tutto il territorio italiano. L’ENI, che opera da anni in Libia con un trattamento di riguardo da parte dell’amministrazione attuale, potrebbe vedersi ridimensionare le forniture da un eventuale nuovo governo, che potrebbe premiare i paesi artefici della liberazione nazionale a scapito dei vecchi alleati del dittatore.

- Chi sono i ribelli? Domanda alla quale è difficile rispondere. Non si è capito bene, si sa soltanto che la loro finalità principale è quella di rovesciare il regime del colonnello Muhammar Gheddafi. Per il resto non sembrano mantenere una linea politica univoca. Se è vero che la democrazia non si esporta (e la storia lo ha dimostrato), sembra che gli stessi ribelli che nelle scorse settimane avversarono l’idea un intervento straniero, abbiano poi esultato alla vista dei missili USA e dei bombardamenti francesi. Della serie: poche idee, ma confuse. Siamo nell’incognita più totale.

- Perché si è parlato di istituzione di una no-fly zone e poi si è intervenuti bombardando obiettivi militari? Probabilmente - è solo una supposizione - le forze della coalizione internazionale devono aver notato che anche impedendo i bombardamenti a danno dei ribelli da parte dell’aviazione libica, le forze di Gheddafi avrebbero comunque avuto la meglio su quelle degli insorti.

- Che figura ha fatto l’Italia sul piano internazionale, in particolare alla luce del trattato di amicizia Italia-Libia? Una figura barbina, che ha irrimediabilmente escluso il governo italiano dalla stanza dei bottoni, dalla direzione delle operazioni. L’Italia esce ridimensionata sul piano internazionale per la sua politica estera intrallazzista e ambivalente. Il premier Berlusconi, prima nel ruolo di amico di Gheddafi, poi in quello di temporeggiatore/negoziatore (un Henry Kissinger de noantri) ed infine in quello di feroce avversario del raìs, non era - e non è tuttora - credibile agli occhi della comunità internazionale. L’Italia si è necessariamente dovuta adattare a quelle che sono le principali tendenze in sede internazionale, ha dovuto mettere a disposizione le proprie basi ed i propri mezzi e rischierà in prima persona di pagare economicamente (per le vicende dell’ENI) ed in termini di sicurezza nazionale (per il rischio terrorismo) l’intervento militare in Libia.

L’accordo Italia-Libia è necessariamente destinato a venir meno. La visita del colonnello a Roma, spettacolo farsesco, al tempo stesso assurdo ed allucinante, è ormai storia passata. L'unica consolazione - ed il merito questa volta spetta ai parlamentari IdV -, è quella di aver impedito a Gheddafi di tenere un discorso al Senato della Repubblica. Sarebbe stata la morte della nostra democrazia.

Alessio Lannutti

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