Il secondo (e probabilmente ultimo) atto di uno dei processi
mediatici più controversi degli ultimi anni volge finalmente al termine. La Corte d’Assise d’appello di
Perugia, con una mossa che in molti si aspettavano, ha deciso di ribaltare il
verdetto di primo grado nei confronti di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. I
due giovani, che nel 2009 erano stati condannati rispettivamente a 26 e 25 anni
di reclusione per l’omicidio di Meredith Kercher, sono stati assolti per non
aver commesso il fatto.
Quella di oggi è una sconfitta per il nostro sistema
giudiziario. Senza entrare nel merito della decisione dei giudici del capoluogo
umbro, che può essere condivisa o meno, si rende assolutamente necessaria una
riflessione più ampia. La giurisdizione penale non è perfetta, sarebbe utopistico
sostenere il contrario. Probabilmente, in un mondo ideale, i processi sarebbero
rapidi, giusti ed equi. I colpevoli verrebbero assicurati alla giustizia,
mentre gli innocenti scagionati. Il sistema giudiziario, tuttavia, è quanto di
più distante esista da questo modello etereo ed immaginifico. È una realtà
fatta di uomini, che, in quanto tali, sono fisiologicamente indotti a
commettere degli errori.
Nel corso delle indagini sul delitto di Perugia, di sbagli
ne sono stati commessi tanti. Troppi. Gran parte della responsabilità per la
situazione di incertezza che si è venuta a creare oggi va attribuita agli
inquirenti. Gli investigatori incaricati di portare avanti le indagini non
hanno saputo proteggere né valorizzare le prove in loro possesso. Si è quindi
arrivati ad un processo indiziario nel corso del quale ogni certezza è venuta
meno. L’abilità degli avvocati difensori - e se Amanda e Raffaele oggi sono
liberi devono ringraziare soprattutto Carlo Dalla Vedova e Giulia Bongiorno, i
rispettivi legali - è stata sufficiente a far crollare il castello accusatorio
costruito dalla Procura di Perugia.
Se è vero che non si può condannare qualcuno ad una vita in
carcere basandosi esclusivamente su sospetti ed indizi, per quanto convincenti
possano essere, è altrettanto vera un’altra particolare circostanza: l’opinione
pubblica ha nutrito dubbi nei confronti dei due studenti fin dal principio
degli avvenimenti e questi non sono mai stati confutati del tutto in sede
processuale. E’ pacifico, nei processi servono certezze, non bastano semplici congetture.
Tuttavia è anche dimostrato che le prove sulle quali era stata formulata la
condanna di primo grado esistevano ed erano tangibili. Certo, non davano risposta
a molteplici interrogativi, ma, associate ai comportamenti furbeschi e melliflui
tenuti da parte dei due imputati nel corso delle primissime fasi della vicenda,
erano idonee a fornire un’istantanea abbastanza nitida della situazione. Il
duro lavoro degli avvocati della difesa, sommato all’imperizia degli inquirenti
nelle varie fasi delle indagini, ha fatto invece emergere un quadro processuale
completamente diverso da quello che si prospettava in seguito alla sentenza di
primo grado, ed al termine di questo percorso si è infine giunti all’assoluzione
con formula piena.
Nel nostro ordinamento è possibile che una persona
condannata nel giudizio di primo grado venga assolta in appello, è per questo
che esistono i tre gradi di giudizio. E’ giusto che in assenza di prove che
rendano gli imputati colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio si debba
necessariamente optare per la loro innocenza. Per contro bisogna spezzare una
lancia in favore di chi nutre ancora riserve sull’epilogo di questa triste
pagina di storia italiana. Il fatto che la Corte d'appello abbia
stabilito che la Knox
e Sollecito non siano colpevoli non sta a significare che i due studenti non
abbiano commesso materialmente il delitto. In ogni caso il dubbio
sopravvive all’assoluzione. E la verità sulla sorte di
Meredith, purtroppo, non la sapremo mai.
Il fallimento del nostro sistema giudiziario sta tutto qui,
nel fatto di non essere riusciti ad accertare veramente come siano andate le
cose. Ovviamente, questo è uno dei possibili esiti di qualsiasi dibattimento
processuale: a stabilire la colpevolezza o l’innocenza
di un individuo sono sempre altri esseri umani e l’errore è contemplato nella
natura stessa dell’uomo. Tuttavia bisogna anche ricordare una triste tendenza
che ci sta interessando direttamente negli ultimi anni: in Italia, sempre più
spesso, la realtà oggettiva rimane celata, per un motivo o per un altro. Tutte le volte che ciò accade, rappresenta una sconfitta per ogni singolo
cittadino del nostro paese. Nella fattispecie, la Corte d’Assise d’appello di
Perugia ha deciso che Amanda Knox e Raffaele Sollecito non sono colpevoli, ma
la verità è che non è stata in grado di determinare con esattezza chi fossero
gli assassini di Meredith Kercher. Un sistema
giurisdizionale assolve pienamente alla sua funzione soltanto quando giunge ad
una conclusione univoca, insindacabile, priva di dubbi. E questo non è il
caso. Amanda e Raffaele sono innocenti per la giustizia italiana, ma non sono
innocenti in termini assoluti: prima o poi saranno comunque chiamati a
rispondere del loro comportamento, giusto o sbagliato che sia. Chi scrive non
conosce le convinzioni personali dei due giovani in materia spirituale, né può
formulare un giudizio di innocenza o colpevolezza nei loro confronti, ma è
comunque certo di una cosa. Se gli uomini si possono ingannare, è impossibile
mentire a Dio o alla propria coscienza.
In molti vedono nella sentenza di secondo grado sul caso
Meredith l’iconografia di un’ingiustizia sociale. In seguito alla decisione
della Corte d’appello, per la giustizia italiana Rudy Guede rimane l’unico
colpevole dell’orrendo crimine. Il giovane ivoriano, meno abbiente rispetto ai
compagni di sventura, non ha mai goduto dell’appoggio dei media e dell’opinione
pubblica. E’ sempre stato considerato come il mostro da sbattere in prima
pagina e probabilmente rimarrà l’unico a pagare per il delitto. Inoltre, non potendosi
permettere avvocati di chiara fama, aveva scelto fin da subito una strategia
difensiva diversa da quella di Amanda e Raffaele. Poiché sull’ivoriano
pendevano prove che confermavano in maniera schiacciante la sua presenza nella
stanza di Meredith la notte del 1° novembre del 2007, i suoi avvocati avevano chiesto
ed ottenuto il rito abbreviato, che aveva portato ad una condanna in Cassazione
a 16 anni di reclusione per concorso nell’omicidio della studentessa inglese.
La sentenza di terzo grado a carico di Rudy aveva sancito un principio
fondamentale, disatteso dai giudici d’appello di Perugia. Guede era stato
ritenuto colpevole dell’omicidio in concorso con Amanda e Raffaele. Adesso che
sono cadute le accuse nei loro confronti, posto che sul luogo del delitto erano
presenti tre persone, rimangono due misteriosi assassini non meglio
identificati. Chi possano essere queste fantomatiche due persone, a distanza di
4 anni, nessuno lo sa e nessuno lo saprà mai.
Figura centrale nella vicenda è la statunitense Amanda Knox
(per uno scherzo del destino Knox era anche il cognome della criminale
protagonista di un discusso film di Oliver Stone, Assassini Nati).
Amanda incarna il modello ideale di bellezza che la società
occidentale ci impone da più di mezzo secolo. E’ la classica ragazza della
porta accanto. Bionda, occhi chiari, carina, slanciata. Il suo aspetto fisico e
la sua personalità hanno influenzato necessariamente, nel bene e nel male,
tutti coloro i quali abbiano seguito il caso Meredith. Amanda Knox si ama o si
odia, senza mezzi termini.
Quando è apparsa la figura di Amanda, tutti hanno
immediatamente avuto cura di prendere le sue difese o di indicarla come autrice
del crimine, senza preoccuparsi minimamente di far luce sui fatti, di
comprendere come fossero andate effettivamente le cose, di battersi per la
verità. La studentessa di Seattle è stata la vera protagonista del processo.
Teatrale per natura, si è emozionata, ha pianto, ha dichiarato più volte la sua
innocenza, ma ha anche insabbiato, mentito, accusato un innocente, Patrick
Lumumba, che probabilmente, se il caso non avesse voluto la presenza di un
testimone in grado di scagionarlo, si sarebbe trovato in guai molto seri.
L’opinione pubblica americana si è subito mobilitata compattamente
per prendere le difese della Knox, con poche sporadiche eccezioni. Se è
innegabile che i mezzi di comunicazione di massa condizionino le idee delle
persone, negli U.S.A. si è raggiunto un livello superiore. In quattro e
quattr’otto sono spuntate come funghi associazioni e movimenti per la
liberazione di Amanda, che ne hanno fatto una martire dei tempi moderni. Anche
personaggi pubblici ed esponenti politici hanno fornito il loro supporto alla
famiglia di Seattle. Per la liberazione della rampolla di casa Knox è stata
messa in piedi una macchina organizzativa da un milione di dollari, che ha
visto la collaborazione di società, compagnie aeree (Amanda, durante il suo
ritorno verso casa, ha fatto scalo a Londra e per l’occasione è stata ospitata
addirittura nella suite reale dell’aeroporto di Heathrow) e dello stesso
governo americano, che ha messo in campo tutti i mezzi a disposizione per
agevolarne il rientro in patria (per il disbrigo delle formalità doganali - il
suo passaporto era scaduto durante il periodo di detenzione - l’ambasciata
americana ha impiegato soltanto qualche ora). La famiglia Knox, che non ha
badato a spese, non si è fatta mancare nulla: ha perfino ingaggiato una società
di pubbliche relazioni per curare l’immagine della figlia. Nel processo
mediatico è una mossa che può rivelarsi risolutiva.
Dall’altra parte c’è Raffaele Sollecito, studente di
ingegneria pugliese del quale, sinceramente, si è sempre saputo ben poco.
Ritenuto, forse a torto, come una pedina nelle mani di Amanda, è stato relegato
quasi subito ad un ruolo di comprimario. Processualmente, ha vissuto della
gloria riflessa della studentessa di Seattle. Anche perché agli americani, di
Sollecito, importava poco o nulla: non essendo un connazionale, veniva nominato
di rado dai media a stelle e strisce. Schivo, riflessivo, silenzioso, rappresenta l’esatto opposto di quella che, all’epoca del delitto, era la sua
fidanzata. In ogni caso, la sorte di Raffaele è sempre stata strettamente
legata a doppio filo con quella di Amanda, considerata esecutrice materiale del
delitto nel dispositivo della sentenza di primo grado. Se fossero cadute le
accuse nei confronti della studentessa americana, anche Sollecito, di
conseguenza, sarebbe stato dichiarato estraneo ai fatti. Questo, i due ragazzi,
l’hanno capito quasi subito. Avrebbero tranquillamente potuto farsi la guerra
in sede dibattimentale, come era avvenuto nei momenti immediatamente successivi
all’incriminazione, ma la loro strategia, alla fine, ha pagato.
Nelle ultime fasi del processo di secondo grado, quando tutti
avevano cominciato a realizzare che il verdetto della Corte d’appello di
Perugia avrebbe condizionato definitivamente le vite dei due imputati, il mondo
si è diviso tra colpevolisti, in gran parte italiani, britannici ed europei, ed
innocentisti, principalmente statunitensi. Il triste spettacolo mediatico che
si è venuto a delineare è infine sfociato in uno scontro culturale che ha
completamente messo da parte il ricordo di Mez e della sua orribile fine. La
famiglia di Meredith non ha avuto il risalto mediatico che avrebbe meritato. Si
è sempre comportata con grande dignità, rispetto e riservatezza. Anche in
seguito all’assoluzione di Amanda e Raffaele ha confermato la propria fiducia
nella giustizia italiana. I Kercher sono stati costretti a subire un torto
inimmaginabile, eppure hanno sempre mantenuto un contegno ed una compostezza
ineccepibili. E’ per questo che meritano la massima stima di tutti.
Per Meredith si sono commossi davvero in pochi. Mentre tutti
erano a conoscenza di vita, morte e miracoli di Amanda, in costante bilico tra due
estremi - c’era chi la dipingeva come una ragazza innocente, pura e candida e
chi invece vedeva in lei l’incarnazione del vizio e della lussuria -, nessuno
si è interessato a Mez. A nessuno è mai importato di scoprire chi fosse quella
studentessa inglese dai capelli scuri e dagli occhi vivaci, di comprendere quali
fossero i suoi interessi, le sue idee, i suoi sogni, le sue ambizioni. Come se improvvisamente la vittima dell’atroce delitto di Perugia, una ragazza che ha avuto
l’unica colpa di venire a studiare nel nostro paese, fosse diventata un
elemento del tutto accessorio ed estraneo alla vicenda.
Il processo di Perugia è stato un
evento mediatico senza precedenti. Se in passato siamo stati abituati a seguire
per filo e per segno gli sviluppi di numerosi delitti consumati negli angoli
più reconditi della nostra penisola, il caso Meredith, per la prima volta nella
storia del sistema giudiziario italiano, ha coinvolto l’opinione pubblica di
mezzo mondo.
Quando agli spettatori giunge
notizia di un crimine efferato, questi tendono in via del tutto naturale a ricercare
un colpevole ed interessarsi ad ogni aspetto della sua esistenza. Se il
sospettato in questione gode di uno charme particolare, l’attenzione diviene
addirittura morbosa. Ed è esattamente ciò che è avvenuto con Amanda Knox. I
giornalisti ed i cittadini americani, nella fattispecie, non hanno esitato a sposare
la tesi dell’innocenza - senza se e senza ma - portando avanti un ragionamento
contraddittorio e campanilistico. La protervia dei media americani sta
tutta qui. La povera Meredith era morta, le prove
ricollegavano la presenza della studentessa di Seattle sulla scena del crimine,
il comportamento tenuto dai sospettati in sede di indagine ricordava le
commedie dell’equivoco di plautina memoria, eppure negli Stati Uniti non
avevano dubbi. Amanda Knox, la classica brava ragazza statunitense, doveva per
forza essere innocente. Ritratta nei talk show come un angelo smarrito dal
paradiso, rappresentava nell’immaginario collettivo la vittima di un errore
giudiziario costretta dietro alle sbarre in un paese straniero culturalmente
arretrato. Poco importava che non avesse alibi e che avesse cercato di
insabbiare le cose fin dall'inizio, accusando del crimine una persona di colore
completamente estranea ai fatti (in puro stile U.S.A.).
I giornalisti d’oltreoceano hanno speso fin da subito parole
di fuoco per il nostro paese. Quando il dibattimento era ancora in corso, un opinionista
televisivo era arrivato addirittura ad auspicare un intervento dei marines per
la liberazione di Amanda, neanche fosse un ostaggio di guerra in un paese
ostile. La situazione è migliorata soltanto con l’assoluzione. Il columnist del
New York Times e Premio Pulitzer Timothy Egan, dopo aver sparato a zero sulla
giustizia italiana durante questi lunghi 4 anni, si è complimentato con il
nostro paese per la sentenza di secondo grado, dimostrando un’imparzialità
degna di un tifoso calcistico che assiste ad un derby. Prima ci hanno fatto
passare per un paese di forcaioli, adesso di colpo siamo diventati
ipergarantisti, un modello da seguire per tutta la comunità internazionale. A
pochi minuti dalla lettura della sentenza il Dipartimento di Stato si è
addirittura complimentato con il nostro paese per la validità del sistema
giudiziario. Se in molti hanno ravvisato nella nota del governo americano
ingerenze nei nostri affari interni, qualcuno ha perfino ipotizzato che il tam-tam
mediatico, con qualche “spintarella” da parte della diplomazia internazionale,
possa aver contribuito ad influenzare i giudici nella loro decisione. Personalmente,
mi sentirei di escludere a priori uno scenario del genere. Perché allora non si
tratterebbe di una sconfitta per la nostra giustizia, ma addirittura della sua
abdicazione.
I media americani, in ogni caso, erano palesemente in
malafede ed hanno pesantemente condizionato l’opinione pubblica del loro paese.
Manco a farlo apposta, nessun giornalista statunitense ha speso una parola di
cordoglio per Meredith e per il dolore dei suoi familiari. La motivazione è
semplice: a loro non è mai importato assolutamente
nulla del fatto che nella vicenda sia stata uccisa una persona. Proprio
perché nel caso di Perugia non ci sono
certezze - e forse non ci sono mai state -, ostentare verità assolute e
vaticinare verdetti, sostituendosi ai giudici, è del tutto inaccettabile, oltre
che irrispettoso nei confronti della vittima. Evidentemente, vista la sicumera
mostrata negli ultimi giorni del processo, qualcuno tra i giornalisti americani
innocentisti doveva trovarsi in via della Pergola la notte del delitto.
Il comportamento tenuto dai mezzi di
informazione a stelle e strisce è patetico, incoerente, opportunista. Ai
giornalisti americani basterebbe guardare in casa propria per scoprire alcune
delle più grandi ingiustizie e nefandezze mai perpetrate - nei confronti di cittadini
americani ed italiani - in nessun sistema giurisdizionale di matrice
occidentale. Ricordiamone alcune.
La strage del Cermis rappresenta l’emblema del modus
operandi americano in tema di giustizia. Il 3 febbraio del 1998 un aereo
militare statunitense tranciò i cavi della funivia del Cermis, in Val di
Fiemme, provocando la morte di 20 persone. Le indagini dimostrarono che il
velivolo volava troppo basso e ad una velocità troppo elevata. Il risultato? Processo
in casa propria, qualche buffetto sulle spalle e colpevoli a piede libero.
Nicola Calipari, agente segreto italiano, rimase ucciso il 4
marzo del 2005 mentre era impegnato nella liberazione della giornalista
Giuliana Sgrena, tenuta in ostaggio in territorio iracheno. Alcuni soldati
americani, che presidiavano un posto di blocco, spararono numerosi colpi verso
l’autovettura che ospitava Calipari e la giornalista del Manifesto, appena
tratta in salvo. Il nome di Mario Lozano, il marine che premette materialmente
il grilletto aprendo il fuoco contro il convoglio, venne rivelato casualmente.
Un blogger, approfittando abilmente di una fuga di notizie, riuscì a risalire
alle generalità del militare attraverso la decrittazione degli omissis contenuti
nel rapporto della commissione d’inchiesta statunitense. Tuttavia, quando il
nominativo giunse in mano agli inquirenti italiani, era ormai troppo tardi. Il
soldato americano si smaterializzò, sparendo nel nulla, e con lui la speranza
di avere giustizia. Assolto dalla giustizia militare americana, Lozano ricomparve
qualche tempo dopo a New York, ma venne prosciolto anche dalla terza Corte d’Assise
di Roma, che dichiarò non luogo a procedere per difetto di giurisdizione.
L’assoluzione di O.J. Simpson ha fatto discutere l'America.
Per certi versi si tratta di un processo mediatico che presenta elementi in
comune con il delitto di Perugia. Orenthal James Simpson era una stella della
National Football League degli anni ’70. Appesi gli scarpini al chiodo, Simpson
aveva intrapreso una carriera cinematografica. Nel 1994 venne accusato
dell’omicidio della ex moglie e di un suo amico. L’ex campione di football,
ricco, famoso, di colore (utilizzerà questo elemento, il presunto odio razziale
nei suoi confronti, come un’arma per far colpo sulla giuria), ingaggiò i
migliori avvocati sulla piazza, un vero e proprio dream team forense. Grazie
all’abilità dei suoi legali, capaci di smontare pezzo per pezzo le
ricostruzioni dell’accusa, venne dichiarato innocente in sede penale nonostante
vi fossero numerose prove che lo identificavano come esecutore materiale degli
omicidi. Poco meno di un anno dopo, quando le polemiche erano ancora lontane
dal placarsi, venne invece riconosciuto colpevole in sede civile e condannato a
risarcire i familiari delle vittime. Agli americani che si dicono certi
dell’innocenza di Amanda Knox andrebbe fatta una sola, semplice domanda. O.J.
Simpson è colpevole? Forse, interrogati su avvenimenti che non possono non
conoscere, riuscirebbero a prendere coscienza di un concetto essenziale: di
come la verità sostanziale, a volte, possa non coincidere con quella
processuale.
Un altro incredibile caso di malagiustizia made in U.S.A. ci
riguarda direttamente. Un nostro connazionale è detenuto da più di 10 anni
negli Stati Uniti, condannato per un crimine che dichiara di non aver commesso.
Enrico “Chico” Forti, all’epoca dei fatti, era un imprenditore italiano
residente a Miami. Nel 2000 venne condannato all’ergastolo da un tribunale
della Florida per l’omicidio del figlio di un imprenditore con il quale era in
affari. La giuria popolare emise la sentenza al termine di un processo
completamente arbitrario: la Corte
basò il verdetto di colpevolezza sulle circostanze, in totale assenza di prove
materiali. Nel dispositivo, infatti, i giudici ignorano completamente se Forti
abbia premuto materialmente il grilletto dell’arma, mai ritrovata, che ha
ucciso il giovane, oppure debba essere considerato soltanto il mandante
dell’omicidio. Un po’ come a dire, “secondo noi sei stato tu: come, quando,
perché, non ci interessa”. E se i giudici di Perugia avessero tenuto un
atteggiamento simile nei riguardi di Amanda Knox? Come sarebbe stato giudicato oltreoceano?
Del caso Forti si sono occupati davvero in pochi. “Chico” non ha avuto il
supporto costante del ministero degli Esteri, come ha fatto il Dipartimento di
Stato americano con la Knox,
e si trova in carcere ingiustamente negli Stati Uniti nel silenzio più completo
del mondo dell’informazione.
Ma vogliamo ricordare le decine di innocenti mandati al
patibolo dalla giustizia a stelle e strisce in tutti questi anni? Persone ai
margini della società, povere, malate, sole. La lista sarebbe lunga, ma un caso
in particolare è balzato sulle prime pagine di tutti i giornali pochi giorni
fa. Troy Davis era un afroamericano 42enne accusato dell’omicidio di un
poliziotto. E’ stato giustiziato, dopo 20 anni nel braccio della morte, il 21
settembre di quest’anno, nonostante l’opinione pubblica nutrisse forti dubbi
sulla sua colpevolezza. Così, mentre il boia praticava l’iniezione letale a
Davis, la stampa americana era troppo occupata a fare la morale alla giustizia
italiana sul caso Knox per lavare in casa i propri panni sporchi. I classici
due pesi e due misure. Sterile retorica? Forse. Sta di fatto che, mentre il
sistema giudiziario americano fa più acqua del Titanic, i media statunitensi
hanno dimostrato ancora una volta di meritarsi l’etichetta di ipocriti, di
avvoltoi, di opportunisti.
In conclusione, è opportuno chiarire un concetto di
importanza sostanziale. Al di là delle proprie convinzioni personali, non bisogna
mai festeggiare per una condanna o per un’assoluzione, come se si stesse
assistendo ad una stupida partita di calcio. La stessa natura umana contempla
la possibilità di commettere atti che vanno contro quelle regole delle quali
ogni comunità si dota per garantire la pacifica e serena convivenza tra i
consociati. E’ per questo che ogni ordinamento giuridico attribuisce
l’esercizio dell’azione penale, perché la giustizia faccia il suo corso. Chi ha
sbagliato deve necessariamente pagare, ma se non si è certi della colpevolezza
di una persona, nel dubbio, è preferibile lasciarla in libertà.
E’ meglio un colpevole libero, o un innocente in galera? Per
rispondere a questa domanda esistenziale vorrei ricordare Enzo Tortora. Nel
1983 il popolare conduttore televisivo fu accusato di associazione per
delinquere di tipo mafioso e traffico di stupefacenti in base alle false
dichiarazioni di alcuni pregiudicati. Incarcerato ingiustamente, Tortora fu
segnato in modo irrimediabile dalla vicenda. Morì nel 1988, un anno dopo la sua
assoluzione definitiva. Ebbene, il caso Tortora può aiutarci a riflettere.
L’istituzione carceraria deve essere l’estrema ratio, l’ultima risorsa, perché
l’esperienza in carcere - che non è mai una vittoria per la società, semmai una
sconfitta - segna necessariamente l’esistenza di qualsiasi essere umano.
Fra qualche tempo, quando si spegneranno i riflettori sulla
vicenda, una famiglia resterà nell’oscurità, tornerà nell’oblio della
quotidianità senza aver modo di placare il proprio dolore. Alla famiglia di
Meredith vanno le nostre scuse più sincere. Come italiani, abbiamo innanzitutto
il dovere morale di chiedere perdono per il teatrino mediatico che noi tutti,
nessuno escluso, abbiamo contribuito ad alimentare, speculando su una tragedia
come se stessimo assistendo ad un incontro sportivo. Se il fallimento della
giustizia è il fallimento della collettività, oggi abbiamo perso tutti. In ogni
caso non dobbiamo dimenticare le tristi vicende di Perugia. Ricordare Meredith,
la sua famiglia e la sconfitta della giustizia italiana. Sperare che un giorno,
come paese, potremo finalmente emendarci dal senso di colpa che ci attanaglia
per non aver fatto tutto il possibile affinché la verità venisse a galla.
Alessio Lannutti