lunedì 13 luglio 2009

Umbria Jazz Festival 2009


PERUGIA - La trentasettesima edizione dell'«Umbria Jazz Festival» è iniziata venerdì 10 luglio e finirà domenica 19. Noi di Antitesi abbiamo seguito i primi tre giorni dell'evento e l'atmosfera è davvero da «grande festival», con un incredibile numero di visitatori e spirito «da strada». Corso Vannucci, la strada che collega due dei principali palchi - quello di Piazza IV Novembre e quello dei Giardini Carducci - sembra il letto di un fiume umano.

37 anni di storia; 10 giorni di concerto; 9 palchi montati tra arena, teatro, strade, piazze e ristoranti; 7 edizioni con l'Arena Santa Giuliana; 220 eventi, per la maggior parte gratuiti; più di 500 musicisti; 66 Grammy Awards sul palco dell'Arena.

Con questi numeri il capoluogo umbro diventa la capitale del Jazz e viene letteralmente invaso da artisti e turisti, provenienti da tutto il mondo, con il solo scopo di vivere la musica in ogni strada del bellissimo centro storico, dalla mattina fino a notte tarda.

Il programma è sicuramente eclettico: la musica proposta è di diversi generi (dal raffinato pop d'autore alle avanguardie estreme, dall'ortodossia jazz alla musica nera, dai cantautori alle orchestre d'archi) e l'intero evento sembra piuttosto ispirato a distinguere solo tra buona e cattiva musica.

Tantissimi gli artisti di fama internazionale che calcheranno il palco principale, quello dell’Arena di Santa Giuliana: Paolo Conte (il 10), gli Steely Dan (l’11), i Simply Red (il 12), Chick Corea & Stefano Bollani (il 13), Wynton Marsalis con il bambino prodigio Francesco Cafiso (il 14), il sassofonista di James Brown Maceo Parker con uno dei padri fondatori del «soul», Solomon Burke (il 15), Burt Bacharach (il 16), George Benson (il 17), James Taylor (il 18) e «dulcis in fundo» una vera leggenda del blues, il «mitico» B.B. King (il 19).

Come domenica 12 anche oggi, alle ore 18,00, la Juakali Drummers - la famosa e singolare «orchestra di strada» formata da venti ragazzi e ragazze della baraccopoli di Kawanguare, a Nairobi, al suo debutto in Europa - si esibirà al Teatro Bertolt Brecht di Perugia, in viale San Sisto, nel musical “Ngoma Mtaani”, che in lingua swahili significa “il ritmo della baraccopoli”. L'orchestra ha preso vita durante il progetto avviato quattro anni fa nella capitale del Kenya da Amref e Dulcimer Fondation pour la Musique, impegnata nella promozione di forme innovative di educazione musicale.

Le altre sedi del Festival vedranno impegnati altri numeri uno della musica internazionale come Dave Douglas, Bill Frisell, Roy Haynes, Ahmad Jamal, Mingus Dinasty.

Presenti anche molti artisti italiani come Flavio Boltro, Paolo Fresu, Roberto Gatto, Rosario Giuliani, Gabriele Mirabassi, Gino Paoli, Enrico Pieranunzi, Gianluca Petrella ed Enrico Rava .

Inoltre non poteva mancare lo storico e raffinato duo voce e chitarra «Tuck & Patty» che ogni sera, a partire dalle 19:30, si esibisce gratuitamente, in attesa del concerto serale che inizia alle 21:30 all'Arena Santa Giuliana, vero e proprio teatro all'aperto capace di più di 4000 posti dove si svolgono gli spettacoli di maggior richiamo.

Dopo l'ultimo concerto delle 23:30 Corso Vannucci e Piazza IV Novembre si svuotano un po’, ma i più – persone di tutte le età - rimangono fino a mattina. Perugia, infatti, è nota per la vita notturna, complice il gran numero di studenti fuori sede e stranieri presenti in città. Le nottate nel capoluogo umbro trascorrono tra pub, locali vari e all'aperto, in piazza, dove non è difficile assistere ad esibizioni di natura spontanea inscenate da veri e propri artisti di strada o semplicemente da comitive di studenti.

Punti di ritrovo della Perugia «under 30» sono le «scalette del Duomo» a piazza IV Novembre, popolate in questi giorni da migliaia di persone che vanno e vengono, sorseggiando bevande di ogni genere, dai vari localini (spesso poco più di 10 metri quadrati, compra ed esci) adibiti a bar che si trovano in ogni angolo. Tra i locali spiccano il Caffè Morlacchi in piazza Morlacchi, punto di ritrovo di centinaia di ragazzi per l'aperitivo e per il dopocena e Mania (del sosia di A.Celentano, che è facile incontrare) in piazza IV Novembre.

Gennaro Rizzo

sabato 11 luglio 2009

In bocca al lupo Régis


E’ passato poco tempo dal terribile incidente costato la vita al giovane e talentuoso Craig Jones - tragedia occorsa nell’Agosto 2008 a Brands Hatch durante le fasi finali del GP di Inghilterra valevole per il campionato Supersport - e lo spettro della morte è tornato nuovamente ad aleggiare sul mondo del motociclismo.

Fortunatamente Régis Laconi, dopo un’estenuante lotta per la vita, ce l’ha fatta. A circa due mesi dallo spaventoso incidente avvenuto a Kyalami durante le prove libere del GP del Sudafrica della categoria Superbike, il pilota transalpino sembra sulla giusta strada per una riabilitazione completa. Nonostante la comprensibile cautela dei medici, con estrema probabilità il pilota francese potrà tornare a cavalcare la sua Ducati - con i colori del team DFX Corse - entro fine anno.

Un recupero record, considerando la gravità delle ferite riportate nel durissimo impatto. Il centauro di origini sarde, vicecampione della Superbike nel 2004, era caduto il 15 maggio scorso. Un incidente banale, come se ne vedono a decine ogni weekend di gare. Nella scivolata Régis era stato sbalzato dalla moto ed aveva picchiato violentemente il capo sull’asfalto, procurandosi fratture alle vertebre ed un grave trauma cranico. In condizioni preoccupanti, era stato immediatamente trasferito all’ospedale di Johannesburg, dove è rimasto alcuni giorni in coma farmacologico, rischiando seriamente la paralisi per le importanti lesioni alle vertebre cervicali.

In questa occasione abbiamo assistito ad un vero e proprio “happy ending”. Ma ad ogni incidente e scivolata il nostro pensiero non può che correre ai piloti, alle loro famiglie, ai loro amici. Ragazzi di un’umanità e lealtà incredibile, agguerriti in pista, gomito a gomito fino all’ultima curva, ma solidali tra loro una volta scesi dalla sella dei loro potentissimi destrieri. Persone che tra mille sacrifici hanno dedicato tutta una vita alla loro passione.

Il mondo delle corse, però, è spesso traditore. Così, mentre un giorno puoi trovarti a tagliare il traguardo dopo una gara emozionante, combattendo fino all’ultimo centimetro tra gli applausi del pubblico e del tuo team, l’indomani puoi finire in un letto d’ospedale a lottare contro la morte. E magari non farcela. E’ successo a Daijiro Kato a Suzuka, a Fabrizio Meoni durante la Dakar, a Craig Jones a Brands Hatch, e capiterà purtroppo ad altri in futuro. Per quanto si possano innalzare gli standard di sicurezza quello degli sport motoristici - e del motociclismo in particolare - rimane un ambiente pericolosissimo, dove il minimo errore può costare molto caro, a volte persino la vita.

Sarebbe uno sbaglio madornale pensare che i piloti non ne siano consapevoli, quasi fossero degli sconsiderati incoscienti. I centauri, come tutti nell’ambiente, conoscono bene i rischi che correranno in pista. Ma una volta indossato il casco, acceso il motore, abbassata la visiera, come fossero “macchine” perfette, rimuovono ogni pensiero e orientano la loro mente a spingere oltre il limite e raggiungere il miglior risultato possibile.

Ci rimane soltanto una misera soddisfazione, una “vittoria di Pirro”, se pensiamo che in fondo, tutti i piloti che ci hanno purtroppo lasciato sulla pista, sono morti facendo quello che amavano realmente. Correre.

A Régis è andata benissimo e non possiamo che esserne felici. Gli facciamo i nostri più sinceri auguri di guarigione e speriamo possa tornare ad emozionarci al più presto in sella alla sua Ducati 1098.

Alessio Lannutti

venerdì 10 luglio 2009

Il "travestitismo", questo sconosciuto


Alcuni eminenti colleghi criticano la pratica del “travestitismo giornalistico” - prassi attraverso la quale un giornalista nasconde la propria identità ed attività ai suoi interlocutori nel tentativo di favorire i propri personali obiettivi informativi - ritenendola scorretta e poco professionale.

In parole povere, a loro autorevole avviso, il “travestirsi” andrebbe considerato un comportamento eticamente e deontologicamente riprovevole, quasi che per le finalità giornalistiche rilevasse esclusivamente la forma e non la sostanza.

Forse, in un mondo ideale, dovrei cospargermi il capo di cenere e dar loro ragione. Ma nella realtà italiana, dove i fatti svicolano silenziosamente nel sottobosco dell’informazione manipolati da giornalisti “embedded”, servili alla causa del potente di turno, nulla è come appare. La notizia deve soddisfare rigidi criteri selettivi prima di giungere al suo consumatore finale, il lettore/ascoltatore/telespettatore. Se dà fastidio a qualcuno “in alto”, viene letteralmente tralasciata dai principali mezzi d’informazione, se non addirittura alterata ad arte.

Ernest Hemingway scrisse le più grandi pagine di guerra del ’900 rimanendo ben lontano dal fronte e dallo scenario dello sbarco in Normandia. D’altronde il giornalismo ha sempre sconfinato un po’ nella letteratura - giungendo spesso persino a travalicare i limiti della finzione - ma oggi la situazione è giunta ad una paradossale esasperazione.

E’ quindi pleonastico che la pratica del “travestitismo” venga posta in essere da giornalisti tendenzialmente liberi dai condizionamenti dei gruppi editoriali di appartenenza. La finalità ultima di chi fa giornalismo d’inchiesta è proprio la ricerca della verità. Ma fino a che punto si può arrivare per realizzare i propri scopi?

Il fine giustifica i mezzi, diceva qualcuno. Mai espressione fu più azzeccata con riferimento all’essenza dell’attività informativa.

Facciamo un esempio attuale ed elementare. Se avessi interesse a verificare il comportamento di determinate banche in merito alla rinegoziazione dei mutui, sortirei effetti completamente differenti presentandomi nelle filiali come giornalista o - in incognito - come privato cittadino. Nella prima ipotesi la filiale bancaria, consapevole del mio ruolo di giornalista, si mostrerebbe sicuramente rispettosa delle norme del decreto Bersani, ostentando un’artefatta e stucchevole trasparenza nei rapporti con i cittadini. Soltanto nella seconda ipotesi si scoprirebbe il reale contegno dell’istituto di credito nei riguardi dei propri clienti.

Se per svelare la verità è davvero necessario ricorrere al “travestitismo”, celare la propria identità, utilizzare metodi resi famosi da trasmissioni come “Report”, ma anche come “Le Iene” e “Striscia la Notizia”, probabilmente, a livello di categoria professionale, dovremmo tutti fare ammenda e provare a scendere un attimo dal piedistallo.

Se oggi veniamo a conoscenza di molti fatti e tematiche scottanti, lo dobbiamo esclusivamente a quei colleghi, razza purtroppo in via d’estinzione, che praticano il giornalismo d’inchiesta. Magari ripagati dal potere politico ed economico - come è purtroppo accaduto a Milena Gabanelli, una delle poche giornaliste che tentano di assolvere realmente alla funzione informativa, deferita al comitato etico della Rai - con sospensioni, denunce, pubbliche gogne (mediatiche).

La realtà è che oggi, in Italia, si avvicina più all’attività giornalistica vera e propria quella svolta da trasmissioni satiriche e d’intrattenimento, che l’arida lettura di agenzie di stampa - filtrate e rielaborate all’occorrenza per nascondere eventuali contenuti pregiudizievoli per i poteri forti - proposta dai principali telegiornali.

Poco importa che Gabibbo & Capitan Ventosa abbiano scarsa dignità professionale e sviliscano l’attività informativa, quando offrono un servizio giornalistico vero, denunciano soprusi e disservizi, scoprono truffe, smascherano delinquenti, forniscono nella pratica un aiuto materiale e tangibile ai cittadini. Forse, un domani, per recuperare credibilità e liberarci dall’etichetta di servi dei potenti e delle lobby, paradossalmente dovremo proprio nascondere la nostra identità o mettere uno sturalavandini in testa.

Alessio Lannutti

lunedì 6 luglio 2009

Politica & Internet: un megafono senza voce


Nel passato quando si aveva bisogno di visibilità, il metodo migliore era quello di acquistare spazi sulla carta stampata. Con l’evolvere delle tecnologie si è iniziato ad utilizzare spazi radiofonici, per finire con quelli televisivi, pagando cifre esorbitanti. Nel 2009 il mezzo più usato è senza dubbio internet, dove con pochi euro ogni anno ognuno di noi può ottenere un posto dove far sentire la propria voce. Il bacino di utenza è potenzialmente globale.

Il web offre numerosi servizi che possono essere utilizzati praticamente ovunque, è quindi ovvia e scontata la potenza di internet. Ci siamo posti questa semplice domanda: i maggiori partiti italiani come sfruttano queste potenzialità?

La domanda non è banale, forum tematici, blog e siti riprendono e analizzano i temi politici quotidianamente, ma solo una piccola parte di essi è gestita dai maggiori partiti italiani.

Visitando il web ci siamo accorti della differenza tra un sito “bello” ed uno di informazione.

Il sito del PDL ne è un esempio. Si presenta molto bene: fluidità e style ne sono padroni. Le informazioni sono completamente assenti così come gli approfondimenti politici, regnano invece elenchi dei gruppi dirigenti ed i resoconti sull’operato dei precedenti governi.

Quello del PD tratta sporadicamente alcune tematiche di attualità a scapito della facilità di navigazione, risulta complicato reperire informazioni, così da non rendere chiara la linea del partito ed i lavori parlamentari.

Dei partiti minori differiscono per stile di informazione, Lega Nord, La Destra e Rifondazione Comunista dove gli articoli di approfondimento lasciano spazio solamente a banner e manifesti.

I Verdi non usufruiscono del mezzo per comunicare ma si limitano ad elencare i vari siti delle federazioni.

Agli antipodi troviamo i siti web dell’UDC e di Forza Nuova: lasciano molto spazio alla voce dei propri esponenti, che affrontano giornalmente le varie tematiche nei loro articoli.

Anche il sito dell’Italia dei Valori, in puro stile blog, sembra particolarmente propenso all’informazione sui lavori dei parlamentari ed all’interazione con il proprio elettorato.

Il confronto tra il sito dei Giovani Democratici e quello di Azione Giovani è vinto da quest’ultimo. Mentre il sito dei GD viene aggiornato sporadicamente, quello di AG risulta ricco di informazioni e contenuti.

Circoli e sezioni territoriali si dividono in due categorie: chi ne fa largo uso e chi ne è completamente sprovvisto. Lo stampo ovviamente è di tipo locale e molto spesso sono assenti i temi nazionali, affrontati dai siti principali. In tempi di elezioni proliferano siti temporanei che dopo aver esaurito il loro compito di vetrina vengono chiusi o abbandonati. Questo vuoto è colmato dai singoli - politici e non - che gestiscono uno spazio dove raccontano e commentano l’attualità italiana.

Le considerazioni sono desolanti: i partiti principali riconoscono il web come mezzo importante e potente, ma usandolo in modo scadente e poco continuativo. Delegano indirettamente alla voce dei singoli l’approfondimento politico. Obama ha vinto le elezioni facendo un grande uso di questa piattaforma, conquistando il consenso degli utenti della rete. Visto il dilagare dell’antipolitica soprattutto fra i più giovani - che sono i maggiori fruitori del web - perché non avvicinarli spiegando i propri progetti?

Enrico Brunetti

Riforma Alfano: il praticantato nuoce gravemente alla salute


Come accade per i pacchetti delle sigarette, anche la riforma dell’avvocatura a cui lavora con dedizione il ministro della Giustizia dovrebbe riportare sul frontespizio l’avvertenza circa gli effetti nefasti che comporta il suo utilizzo e la sua applicazione. Una riforma molto pubblicizzata nell’ultimo anno, dove si parla di decoro della professione, di formazione continua, di tutela del consumatore e soprattutto di selezione degli aspiranti avvocati nel percorso post-universitario. Si dice, e può essere, che gli avvocati in Italia siano troppi.

A fronte di ciò il governo, su ispirazione del Consiglio Nazionale Forense, ritiene opportuno intervenire sull’accesso alla professione: scuole di specializzazione obbligatorie e a numero chiuso durante il periodo di praticantato; test d’ingresso all’esame di stato ed esami più duri, vietando ad esempio l’uso dei codici commentati durante le prove scritte. Qualcuno con una punta d’astio ha suggerito che per diminuire il numero degli avvocati basterebbe mandare in pensione tutti gli avvocati che hanno superato i 65 anni. Quello che stupisce veramente resta però l’assoluta mancanza, in quella che viene annunciata come una riforma epocale, di attenzione ad uno degli aspetti più deviati dell’attuale sistema dell’avvocatura italiana: la sostenibilità e i tempi di accesso alla professione.

Se infatti il tempo di svolgimento della pratica resterebbe invariato, alla normale attività di studio già oggi obbligatoria, si affiancherebbe l’obbligatoria frequenza di corsi di specializzazione a pagamento. Chiaramente si tratterebbe di un percorso formativo che metterebbe il praticante in perdita economica netta. In tutto ciò soltanto chi fosse in possesso di un reddito “esterno”, familiare o altro, potrebbe quindi svolgere il percorso verso l’abilitazione. Ciò restringerebbe alla “casta” degli avvocati, discendenti e pochi altri eletti la possibilità di aspirare all’abilitazione e all’esercizio della professione. Un tale sistema azzererebbe la mobilità sociale nella professione e conseguentemente diminuirebbe la qualità del servizio, rendendo fittizia la concorrenza e impedendo alle migliori giovani risorse di emergere. In un settore strategico come quello dei servizi legali tutto questo nuocerebbe alla salute sociale ed economica delle nuove generazioni, come nuocerebbe alla salute di un paese vittima del declino demografico, che non può permettersi di sbattere la porta in faccia alle nuove generazioni. Ci sono molti aspetti della riforma della professione di avvocato che rispecchiano quello che sembra un pensiero chiaro ed imperante per una certa parte del paese: tagliare sull’istruzione pubblica, tagliare sulla ricerca, glissare sul precariato e sui problemi dell’accesso al lavoro, sostenere le lobby e soprattutto sorridere e sembrare efficienti. La crisi non esiste e il governo lavora bene. Se si riduce drasticamente il numero degli accessi in pochi anni il risultato della diminuzione del numero di avvocati sarà raggiunto. Poco importa delle future conseguenze sociali ed economiche di tutto ciò. Oggi si è al governo, domani chissà.

Le alternative proposte dall’opposizione parlamentare sono però purtroppo deboli e tendenzialmente allineate, e in alcuni casi addirittura peggiori della proposta governativa, come l’idea di portare il praticantato da 24 a 36 mesi. Si tratta di un atteggiamento di basso profilo basato sull’accordo tra poteri forti. Va bene all’Ordine degli Avvocati, va bene al Governo, alla fine va bene anche all’opposizione, allora si può dire che è fatta. Una riforma delle grandi intese, politiche e lobbistiche.

Eppure in questi mesi di discussione attorno alla riforma qualcosa si è mosso. Un appello lanciato a livello nazionale ha visto l’adesione di studenti, praticanti e avvocati provenienti da molte città italiane. L’appello non chiede la conservazione dello status quo, ma l’instaurazione di un sistema nuovo che guardi alle pari opportunità e all’accorciamento dei tempi d’ingresso alla professione. La necessità di inserire una parte del percorso formativo all’interno di quello universitario, ormai definitivamente passato da quattro a cinque anni, è una delle richieste più forti. Se si guarda agli standard europei la situazione italiana a riguardo è a dir poco anomala, come anomala è la mancanza pressoché totale di sostegni ai più meritevoli nel percorso formativo post-universitario. Se poi si aggiunge che la riforma ritorna quasi completamente sui passi fatti in avanti nella liberalizzazione della professione, il cerchio si chiude. Si tratta di una riforma che mira alla conservazione e alla radicalizzazione del sistema attuale, con i noti metodi della cooptazione e della instabilità perpetua di cui vittime sono le generazioni presenti e future.

La reazione a tutto ciò non può essere che di rottura. Nell’opinione della politica attuale la riforma passerà, forse non subito, ma passerà. Rimane la possibilità di ascoltare le organizzazioni politiche giovanili, i sindacati e le associazioni. Firmatari dell’appello contro la riforma sono stati sia gli Studenti Democratici e i Giovani Democratici di tutta Italia che la CGIL- Filcams. Il da farsi sembra chiaro: presentare una proposta alternativa che possa essere supportata da una sottoscrizione popolare che metta all’attenzione dei parlamentari e dell’opinione pubblica nazionale la questione dell’accesso al futuro. L’attuale proposta Alfano per l’avvocatura sembra infatti solo attualizzare in un campo specifico le problematiche proprie dell’intero mercato del lavoro. L’abbattimento dell’università pubblica e dello stato sociale presto farà le prime vittime, come già le sta già facendo; e a cadere per primi sono sempre i più deboli, economicamente e socialmente, ovvero le nuove generazioni con sempre meno spazi e possibilità.

Questa riforma nuoce gravemente alla salute della giustizia e dell’avvocatura italiana, come alle aspirazioni degli studenti e dei praticanti. La sfida sarà nel convincere i parlamentari e il governo a smettere.

Julian Gareth Colabello

venerdì 3 luglio 2009

Grandi affari: supermarket in Iraq


Nelle vicende internazionali è sempre complesso distinguere tra cause e conseguenze. Il principio cronologico non si rivela utile nella ricerca, se non da un punto di vista causale strettamente materiale. Assegnare ai grandi affari in corso in Iraq lo status di conseguenza di una qualche vicenda internazionale sembrerebbe estremamente difficile, se non addirittura impossibile. Eppure, gli accadimenti degli ultimi tempi portano a smentire quanto affermato finora.

Premesso che quando si fanno affari, grandi affari, c'è sempre una parte che guadagna ed un'altra che perde, «in Iraq c'è da ricostruire tutto, assolutamente tutto». Così si esprimeva Nicolas Sarkozy al termine della sua visita lampo compiuta a Baghdad lo scorso 10 febbraio.

Nelle parole di Sarkozy era chiaro e lapidario l'implicito invito alle aziende francesi a mettersi in corsa per partecipare al grande business della ricostruzione irachena.

Bene, la grande corsa è partita. Il 2 luglio 2009, dopo settimane preparazione (per non lasciare nulla al caso), è giunta a Baghdad una selezionata delegazione di imprenditori francesi guidata dal Primo Ministro François Fillon e dal ministro dell'Economia Christine Lagarde. Altra missione lampo, per esigenze di sicurezza, rimasta segreta fino all'ultimo. L'aereo con Fillon e la delegazione è partito a mezzanotte da Parigi, all'alba di ieri ha fatto scalo ad Amman, quindi il viaggio è proseguito verso Baghdad a bordo di un Hercules C-130 dell'aeronautica francese.

Con il Primo Ministro e Christine Lagarde hanno viaggiato undici «big» dell'economia transalpina, come Laurence Parisot (la «patronne» di Medef, la Confindustria francese), Christophe de Margerie (Total), Louis Gallois (Eads, cioè industria aerospaziale ed Airbus), Henri Lachmann (Scheider, energia), Bruno Lafont (Lafarge, costruzioni), Henri Proglio (Veolia, servizi ambientali e gestione delle acque), Michèle Lamarche (in rappresentanza della banca d'affari Fratelli Lazard). Fillon ha incontrato a Baghdad il premier Nuri al-Maliki, poi è volato a Sulaimaniya per un colloquio con il presidente del Kurdistan iracheno Jalal Talabani [Mas’ud Barzani NdR].

Tra gli accordi firmati ieri, uno riguarda il settore del credito ed un altro la formazione di ingegneri.

Ma la cooperazione franco-irachena è promettente in molti settori, compreso - ovviamente - quello militare. Il maggio scorso una delegazione era arrivata a Baghdad da Parigi per concludere accordi con gli iracheni. L'Iraq ha acquistato 24 aerei da trasporto, ma sono sul tavolo delle trattative anche acquisti di elicotteri e di altri armamenti. In quella occasione i membri della missione francese si erano lamentati della presenza di militari americani durante tutti i colloqui ufficiali. Ora invece la visita della delegazione francese in Iraq avviene, con singolare tempismo, a sole 48 ore di distanza dal ritiro dell'esercito americano dalle principali città irachene. Finora la ritirata dell'esercito Usa dai centri urbani non sembra aver scatenato la temuta ondata di violenza. C'è invece grande fermento nel settore economico.

Il 1° luglio il governo iracheno ha indetto una grande asta pubblica per assegnare lo sfruttamento di otto giacimenti di petrolio e gas. Una gara d’appalto petrolifera in diretta televisiva per garantire la «trasparenza». In una camera d'albergo della superprotetta Green Zone di Baghdad si sono presentate alla gara 31 compagnie straniere (fra cui l'italiana ENI), ma alla fine è stato assegnato un solo appalto per gestire i pozzi petroliferi di Rumaila, nel sud dell'Iraq, che avrebbero una riserva stimata in oltre 17 miliardi di barili. L'appalto se lo è aggiudicato un consorzio formato dalla britannica BP insieme ai cinesi della CNPC International. BP e CNPC sono le uniche compagnie petrolifere straniere che andranno a lavorare in Iraq, almeno per il momento. Gli altri appalti non sono stati assegnati ufficialmente perché gli iracheni non hanno soddisfatto le richieste delle multinazionali, che si sono dichiarate deluse dai termini dell'operazione, ma il clima nel substrato sociale è piuttosto quello delineato dai lavoratori iracheni che il 25 giugno 2009 ribadiscono: «le compagnie petrolifere internazionali non firmino i contratti relativi ai giacimenti offerti nel primo round di gare d’appalto, perché questi contratti sono illegali».

L’avvertimento, a pochi giorni dalla conclusione delle gare, arriva dal sindacato iracheno dei lavoratori del petrolio, che definisce questo primo round “una vera catastrofe”, dato che riguarda i giacimenti “enormi e strategici” che sono il cuore dell’economia irachena.

Si è perciò parlato di un fallimento, ma ieri, durante la conferenza stampa con Fillon, il premier iracheno al-Maliki ha respinto le accuse e ha affermato diplomaticamente: «Non si è trattato di un fallimento, bensì è stato un round dove alcuni hanno avuto successo e altri no». «L'Iraq guarda i suoi interessi da un'angolatura particolare», ha aggiunto, «diversa dall'angolatura da cui le compagnie straniere guardano i loro interessi».

Presto si terrà un nuovo round delle gare di appalto. Ne resta fuori il destino del giacimento di Nassiriya, per il quale sono in corsa l'ENI, i giapponesi di Nippon Oil, e gli spagnoli della Repsol. La decisione del governo iracheno sul giacimento di Nassiriya potrebbe essere vicina: il ministro iracheno del Petrolio, Hussein al Shahristani, ha detto alla Reuters che la compagnia alla quale andrà il contratto è stata scelta, ora il nullaosta finale spetta al Consiglio dei ministri. Quale sia questa compagnia Shahristani non ha voluto dirlo.

Gennaro Rizzo

martedì 30 giugno 2009

I dolori del "giovane" Bernard


Povero Madoff, in fondo un po’ fa tenerezza. A volte il mondo sa essere ingiusto con chi ha provato a fare il “furbetto” (o meglio l’indiano, vista la provenienza geografica del celebre finanziere). La storia ci insegna che uno stesso contegno delittuoso può venir giudicato diversamente al variare della latitudine e della longitudine. Così, in maniera del tutto naturale e fisiologica, può accadere che per una stessa fattispecie, segnatamente un’epocale truffa finanziaria a danno di una moltitudine di soggetti, negli USA il nostro “eroe” si becchi 150 anni di carcere - uscirà di prigione nel 2159, alla veneranda età di 221 anni (a proposito, gli auguriamo una lunga vita) - mentre in Italia “furbetti” grandi e piccini si trovino ancora a piede libero, incoraggiati addirittura a sguazzare tra canali televisivi e copertine di riviste patinate, millantando la propria innocenza e flirtando con attricette e soubrette di dubbia moralità. Il mondo è bello perché è vario.

Le foto pubblicate da tutti i media ci mostrano un Madoff pensoso e rassegnato, come non l’avevamo mai visto prima. Sembra persino aver capito la lezione. Ma un banchiere d’affari, degno esponente della peggior schiatta esistente dalla nascita del sistema finanziario, può realmente rinsavire? Nutriamo qualche riserva in merito.

Pochi giorni fa in Sardegna, precisamente a Cagliari, è stata multata una signora ritenuta colpevole di aver nutrito un cane randagio affamato. Bancarottieri e “furbetti”, invece, non solo non vanno mai in galera, non solo non vengono sanzionati, ma dobbiamo pure sorbirceli in televisione e su tutti i giornali, quasi fossero modelli ideali da imitare. Roba dell’altro mondo. In Italia si mangerà pure bene, il clima sarà anche ottimo, ma che prezzo siamo costretti a pagare per avere tutto questo?

Povero Bernie, fosse stato incriminato in Italia adesso godrebbe di grande rilievo mediatico, sarebbe sempre invitato nei locali alla moda, magari accompagnato da qualche scosciata e avvenente signorina. Invece sarà costretto a passare una vita dietro le sbarre: il “giovane” 71enne (in fondo cosa sono 150 anni di fronte all’eternità?) avrà molto tempo per pensare. Uscirà dal carcere soltanto quando le macchine voleranno, l’uomo vivrà su Marte (dopo aver ipotecato la Terra) e Pippo Baudo non condurrà più il Festival di Sanremo.

Intendiamoci, personalmente non permetterei mai che i “furbetti” finiscano in galera. Per carità. Gli augurerei soltanto un quarto d’ora nel campo centrale di uno stadio a giocare a “guardie e ladri” in compagnia di tutti i clienti bancari truffati. Sarebbe una giusta punizione. D’altronde in Italia siamo pessimi imitatori: la prassi del “punirne uno per educarne cento”, una delle rarissime cose buone degli Stati Uniti, ce la siamo fatta scappare. A questo punto una domanda sorge spontanea, forse più di una. Che sia colpa delle carceri italiane? Che le patrie galere appaiano meno accoglienti di quelle d’oltreoceano? Che siano false e tendenziose le famose leggende metropolitane sulla saponetta? Chiedetelo a Madoff…

Alessio Lannutti