lunedì 6 luglio 2009
Riforma Alfano: il praticantato nuoce gravemente alla salute
Come accade per i pacchetti delle sigarette, anche la riforma dell’avvocatura a cui lavora con dedizione il ministro della Giustizia dovrebbe riportare sul frontespizio l’avvertenza circa gli effetti nefasti che comporta il suo utilizzo e la sua applicazione. Una riforma molto pubblicizzata nell’ultimo anno, dove si parla di decoro della professione, di formazione continua, di tutela del consumatore e soprattutto di selezione degli aspiranti avvocati nel percorso post-universitario. Si dice, e può essere, che gli avvocati in Italia siano troppi.
A fronte di ciò il governo, su ispirazione del Consiglio Nazionale Forense, ritiene opportuno intervenire sull’accesso alla professione: scuole di specializzazione obbligatorie e a numero chiuso durante il periodo di praticantato; test d’ingresso all’esame di stato ed esami più duri, vietando ad esempio l’uso dei codici commentati durante le prove scritte. Qualcuno con una punta d’astio ha suggerito che per diminuire il numero degli avvocati basterebbe mandare in pensione tutti gli avvocati che hanno superato i 65 anni. Quello che stupisce veramente resta però l’assoluta mancanza, in quella che viene annunciata come una riforma epocale, di attenzione ad uno degli aspetti più deviati dell’attuale sistema dell’avvocatura italiana: la sostenibilità e i tempi di accesso alla professione.
Se infatti il tempo di svolgimento della pratica resterebbe invariato, alla normale attività di studio già oggi obbligatoria, si affiancherebbe l’obbligatoria frequenza di corsi di specializzazione a pagamento. Chiaramente si tratterebbe di un percorso formativo che metterebbe il praticante in perdita economica netta. In tutto ciò soltanto chi fosse in possesso di un reddito “esterno”, familiare o altro, potrebbe quindi svolgere il percorso verso l’abilitazione. Ciò restringerebbe alla “casta” degli avvocati, discendenti e pochi altri eletti la possibilità di aspirare all’abilitazione e all’esercizio della professione. Un tale sistema azzererebbe la mobilità sociale nella professione e conseguentemente diminuirebbe la qualità del servizio, rendendo fittizia la concorrenza e impedendo alle migliori giovani risorse di emergere. In un settore strategico come quello dei servizi legali tutto questo nuocerebbe alla salute sociale ed economica delle nuove generazioni, come nuocerebbe alla salute di un paese vittima del declino demografico, che non può permettersi di sbattere la porta in faccia alle nuove generazioni. Ci sono molti aspetti della riforma della professione di avvocato che rispecchiano quello che sembra un pensiero chiaro ed imperante per una certa parte del paese: tagliare sull’istruzione pubblica, tagliare sulla ricerca, glissare sul precariato e sui problemi dell’accesso al lavoro, sostenere le lobby e soprattutto sorridere e sembrare efficienti. La crisi non esiste e il governo lavora bene. Se si riduce drasticamente il numero degli accessi in pochi anni il risultato della diminuzione del numero di avvocati sarà raggiunto. Poco importa delle future conseguenze sociali ed economiche di tutto ciò. Oggi si è al governo, domani chissà.
Le alternative proposte dall’opposizione parlamentare sono però purtroppo deboli e tendenzialmente allineate, e in alcuni casi addirittura peggiori della proposta governativa, come l’idea di portare il praticantato da 24 a 36 mesi. Si tratta di un atteggiamento di basso profilo basato sull’accordo tra poteri forti. Va bene all’Ordine degli Avvocati, va bene al Governo, alla fine va bene anche all’opposizione, allora si può dire che è fatta. Una riforma delle grandi intese, politiche e lobbistiche.
Eppure in questi mesi di discussione attorno alla riforma qualcosa si è mosso. Un appello lanciato a livello nazionale ha visto l’adesione di studenti, praticanti e avvocati provenienti da molte città italiane. L’appello non chiede la conservazione dello status quo, ma l’instaurazione di un sistema nuovo che guardi alle pari opportunità e all’accorciamento dei tempi d’ingresso alla professione. La necessità di inserire una parte del percorso formativo all’interno di quello universitario, ormai definitivamente passato da quattro a cinque anni, è una delle richieste più forti. Se si guarda agli standard europei la situazione italiana a riguardo è a dir poco anomala, come anomala è la mancanza pressoché totale di sostegni ai più meritevoli nel percorso formativo post-universitario. Se poi si aggiunge che la riforma ritorna quasi completamente sui passi fatti in avanti nella liberalizzazione della professione, il cerchio si chiude. Si tratta di una riforma che mira alla conservazione e alla radicalizzazione del sistema attuale, con i noti metodi della cooptazione e della instabilità perpetua di cui vittime sono le generazioni presenti e future.
La reazione a tutto ciò non può essere che di rottura. Nell’opinione della politica attuale la riforma passerà, forse non subito, ma passerà. Rimane la possibilità di ascoltare le organizzazioni politiche giovanili, i sindacati e le associazioni. Firmatari dell’appello contro la riforma sono stati sia gli Studenti Democratici e i Giovani Democratici di tutta Italia che la CGIL- Filcams. Il da farsi sembra chiaro: presentare una proposta alternativa che possa essere supportata da una sottoscrizione popolare che metta all’attenzione dei parlamentari e dell’opinione pubblica nazionale la questione dell’accesso al futuro. L’attuale proposta Alfano per l’avvocatura sembra infatti solo attualizzare in un campo specifico le problematiche proprie dell’intero mercato del lavoro. L’abbattimento dell’università pubblica e dello stato sociale presto farà le prime vittime, come già le sta già facendo; e a cadere per primi sono sempre i più deboli, economicamente e socialmente, ovvero le nuove generazioni con sempre meno spazi e possibilità.
Questa riforma nuoce gravemente alla salute della giustizia e dell’avvocatura italiana, come alle aspirazioni degli studenti e dei praticanti. La sfida sarà nel convincere i parlamentari e il governo a smettere.
Julian Gareth Colabello
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