mercoledì 18 novembre 2009

Il grande silenzio di chi? Degli intellettuali


Il 28 ottobre scorso il noto intellettuale e docente universitario Alberto Asor Rosa è stato ospite dell'iniziativa organizzata dall'associazione Eureka e il circolo culturale Enrico Berlinguer presso la suggestiva sala conferenze del museo civico di Albano Laziale per presentare il suo ultimo lavoro, il libro-intervista “Il Grande Silenzio”.

Un lungo colloquio raccolto dalla giornalista di Repubblica Simonetta Fiori che fa il punto della situazione sul ruolo degli intellettuali partendo dall'Ottocento fino ai giorni nostri, che si snoda in un percorso che vede due protagonisti, l'intervistato e l'intervistatore, attraverso una serie di domande creando non un semplice saggio, ma un intreccio di riflessioni e di vita vissuta. L'aspetto centrale del libro appare il modo in cui il prof. Asor Rosa riflette sul tema degli intellettuali e il suo vivere la questione analizzandola e raccontandola in modo pratico di come il suo essere intellettuale si sia intrecciato con la storia italiana degli ultimi cinquanta anni.

“La storia degli intellettuali italiani ha avuto un grande valore molto prima dell'Unità Nazionale, sono stati capaci di cementificare il sentimento unitario del Paese – esordisce così Asor Rosa per dare l'avvio alla presentazione del suo libro – e dopo la prima infanzia dello stato essi sono stati capaci di fare un lavoro di supplenza ed integrazione al lavoro dei politici.”

Negli ultimi venti anni si è assistito, invece, ad un allentamento del rapporto tra classe intellettuale e politica fino a portare a quello che il titolo del libro individua il grande silenzio della cultura italiana. C'è da chiedersi perché? Ci sono le responsabilità dei politici e del mondo della cultura ha spiegato Asor Rosa. “Si è verificata una settorializzazione della ricerca intellettuale che ha rinunciato a presentarsi come protagonista dei cambiamenti politici ed istituzionali. Dall'altro lato il ceto politico è diventato sempre più autoreferenziale, più intento a risolvere i problemi del Paese nella sua cerchia di ceto politico”
“Questo per due ragioni di motivazioni. – continua Alberto Asor Rosa – L'intreccio fra politica e cultura era favorito dalle grandi ideologie portatrici di grandi idee generali, mentre ora la politica ha un orizzonte molto ravvicinato. Inoltre in un modo globalizzato le categorie intellettuali sono trascese con un'assenza di opzioni culturali nell'orizzonte quotidiano”.

Alla domanda del pubblico chi è l'intellettuale, la risposta è stata diversa a seconda del periodo storico: “ Il lavoro intellettuale ha avuto un forte sviluppo con due fenomeni storici, il secolo dei lumi e la rivoluzioni industriale, era una vera e propria classe sociale capace di parlare di tutto, invece ora l'intellettuale è un grande specialista che proietta le sue conoscenze sul piano sociale, come Max Weber e Norberto Bobbio”.

Ora nel legame tra politica e cultura si è innestata anche la crisi della democrazia italiana in cui le forze politiche non sono riuscite a dare risposta alla tradizione e ai rapporti istituzionali e anche il dato di fatto che ci sono strumenti di espressione limitati per gli intellettuali su tutti i mezzi di comunicazione dove il circuito informativo della cultura è molto stretto.

Cosa fare allora per gli intellettuali per non cedere alla tentazione del “grande silenzio”? Asor Rosa apre con l'ultima questione da parte del pubblico in sala altri spunti di riflessione: “ L'opinione pubblica e la sua parte intellettuale non può cedere alla tentazione e deve reagire attraverso una resistenza positiva. Se non si trova più spazio per gli intellettuali singoli bisogna rafforzare gli intellettuali collettivi come la scuola e l'università. Specialmente la scuola rappresenta l'unico tessuto istituzionale in permangono alcune categorie positive (l'identità nazionale, la tradizione e il rispetto delle istituzioni). Bisogna mantenere attivo il circuito tra politica, cultura, intelligenza ed impegno mantenendo vive la scuola e l'università.”

Certamente degli intellettuali ha bisogno la politica nostrana per recuperare il suo spessore, forse lo chiede la politica stessa che escano dal loro “grande silenzio” e tornino a parlare e dire la loro. Staremo a vedere se i due mondi della politica e cultura torneranno di nuovo a prendere contatti e corteggiarsi a vicenda.

Francesca Ragno

domenica 15 novembre 2009

Cesare Battisti accusa il governo: “Mi vogliono in Italia come trofeo”


Momenti decisivi per le sorti dell'ex militante dei PAC (Proletari Armati per il Comunismo), in attesa della decisione sulla richiesta d'estradizione formulata dal governo Berlusconi che sarà a breve discussa dalla Corte Suprema Federale del Brasile, paese dove Battisti è attualmente accolto come rifugiato politico. Battisti è ritenuto colpevole di 4 omicidi tra il 1978 e il 1979: in tre di essi è statoi riconosciuto concorrente nell’esecuzione, e condannato all’ergastolo con sentenze passate in giudicato.

Ciò che sta scuotendo l'opinione degli scettici è capire fin dove lo status di rifugiato politico possa arrivare a rendere immune un individuo, discussione al limite tra il sempre più sottile confine tra giurisprudenza e politica. Secondo la definizione di "Wikipedia", è rifugiato politico chi è fuggito o è stato espulso a causa di discriminazioni politiche, religiose o razziali dal proprio Paese, e che di conseguenza è accolto come rifugiato in un paese straniero.

Cesare Battisti è stato condannato per l'uccisione di un macellaio nel corso di una rapina, reato che non rientra nello spettro di indennità di cui un rifugiato politico gode. La sentenza, peraltro, non è esente da dubbi, poichè resta presente l'ipotesi di un compromesso tra gli altri imputati: Battisti è stato condannato in contumacia attraverso la testimonianza accusatoria dei due ex militanti pentiti, che hanno in tal modo ottenuto una sensibile riduzione della pena, solo 15 anni rispetto all'ergastolo del compagno fuggito.

E' quindi giusto che gli sia concesso un rifiuto per la richiesta di estradizione? La mia personale opinione è che questa richiesta sia una falsa rivendicazione di giustizia mascherata con fin troppo evidenti motivazioni politiche da parte del governo Berlusconi, alla costante ricerca di facili clamori per esaltarsi di fronte al cieco elettorato.

La discussione andrebbe invece affrontata con occhi diversi, apolitici, cercando di capire se una scelta di azione politica possa arrivare ad esser considerata tanto importante da porre in secondo piano la vita di un essere umano. Le vittime degli omicidi di cui Battisti è accusato (come omicida e come concorrente) hanno una famiglia che li rimpiange e che è in attesa di giustizia. E' questo il corretto spirito con cui affrontare la vicenda, e non, come lo stesso Battisti ha dichiarato, quello di cercare un misero "trofeo" politico con cui gonfiare dibattiti televisivi e la prossima propaganda elettorale, aggiungo io.

Non bisogna giudicare il Battisti politico, ma la sua azione, che anche se portata avanti secondo motivazioni profonde e che vanno al di là del crudo gesto criminale, in un paese civile non può esser perdonata.

P.S.
Quando politica e giurisdizione si confondono, muore la democrazia. Sarebbe bene che alcuni politici in primis, lo ricordassero più spesso.

P.P.S.
Quest'articolo non vuole giudicare il Battisti uomo e pensatore, politico e intellettuale (autore di scritti e riflessioni apprezzate con ampio seguito anche all'estero), ma quella che è una oggettiva richiesta di estradizione per crimini commessi, indipendentemente dal fine che li ha motivati.

Marco Montoro

domenica 1 novembre 2009

Uccisi dallo Stato


La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte. (Art. 27 Costituzione italiana)

In Italia, in pieno XXI secolo, è ancora possibile morire per mano dello Stato. Sembra assurdo, a tratti paradossale, ma è così. Circostanze diverse, esiti assurdamente analoghi. Stefano Cucchi era un ragazzo come tanti. Come Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Stefano Sandri e molti altri. Non troverete le loro storie sulle copertine di quotidiani e riviste patinate, dedicate ormai quasi esclusivamente al gossip ed alle diatribe tra gli opposti schieramenti politici. Simili tragedie sembrano interessare soltanto relativamente i mass media, preoccupati di propinare al “popolino” la solita solfa, reiterata ciclicamente fino alla nausea. Finché una notizia vende, viene pubblicata, una volta scemato l’interesse, non se ne parla più. Tali vicende sarebbero irrimediabilmente destinate ad inabissarsi nel mare dell’oblio, se non vi fosse, a tenerle miracolosamente a galla, la sete di verità, di giustizia e l’indignazione delle famiglie delle vittime e di molti italiani per bene.

Stefano era stato fermato a Roma, nel Parco degli Acquedotti, nella notte tra il 15 ed il 16 ottobre perché trovato in possesso di una modica quantità di stupefacenti. Secondo la testimonianza dei familiari, si trovava in piena salute al momento dell’arresto. Stefano muore il 22 ottobre nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, senza che in precedenza fosse stata data la possibilità ai familiari di incontrarlo. Il suo volto è tumefatto, sfigurato. Il corpo presenta evidenti lesioni. Secondo le dichiarazioni delle autorità il giovane sarebbe caduto dalle scale. Tale ipotesi appare però alquanto improbabile agli occhi dei parenti del ragazzo dopo aver visionato le fotografie della salma, scattate in seguito ai rilievi autoptici di rito.

E’ innegabile che chi commetta sbagli, durante il proprio percorso di vita, debba pagare. E’ però altrettanto indubbio che i detenuti, qualsiasi crimine essi abbiano commesso, debbano essere tutelati e rispettati nella propria dignità. Sono anche loro esseri umani, non bisogna mai dimenticarlo. Proprio per queste ragioni è inconcepibile che un ragazzo come tanti, per un reato tutto sommato “veniale”, debba perdere la propria vita. Non è giustizia, è mera barbarie.

Se ciò accade, e si ripete periodicamente nel tempo, in Italia c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Antitesi nell’estate 2009 è riuscita ad entrare nelle carceri italiane riscontrando una situazione, nell’emergenza sovraffollamento, tutto sommato umanamente tollerabile. Tuttavia è innegabile che il sistema carcerario italiano presenti numerose lacune e necessiti di importanti cambiamenti per divenire realmente “rieducativo”.

Lo scandalo della giustizia "lumaca", con i magistrati oberati da carichi di lavoro sovraumani, ne è esempio lampante. Così, mentre mafiosi e camorristi restano impuniti per il mancato deposito delle motivazioni delle sentenze entro i termini previsti dalla legge, troppi giovani si sono trovati a pagare a caro prezzo, spesso con la vita, piccoli errori dei quali la nostra società e noi tutti - nessuno escluso - siamo direttamente o indirettamente responsabili. Nell’amara consapevolezza che quello che è accaduto a questi ragazzi poteva e può tuttora capitare ai nostri conoscenti, ai nostri cari, forse addirittura a noi stessi.

Questo articolo non vuole assolutamente essere un atto di accusa contro lo Stato e - in particolare - contro le Forze dell’ordine italiane, che rischiano ogni giorno la vita per garantire la nostra sicurezza e la possibilità di vivere in un paese il più possibile libero e democratico. Dare un senso a queste morti diventa un obbligo morale per tutti gli operatori dell’informazione, a prescindere dalle opinioni politiche personali. I cittadini onesti e rispettosi della democrazia, certamente la grande maggioranza degli italiani, devono sapere. Chi scrive oggi su queste pagine si sente assolutamente in dovere di mettere l’opinione pubblica a conoscenza dei fatti, per contribuire - nelle nostre limitate possibilità - affinché venga fatta giustizia. Perché fatti simili non si verifichino mai più nel nostro paese e perché i colpevoli vengano perseguiti a termini di legge.

Il dolore, il rimorso, la rabbia potrebbero portare persino a comprendere, se non addirittura giustificare, sentimenti di odio nei confronti delle Forze dell’ordine e delle Istituzioni in generale. Non bisogna assolutamente cadere in una simile tentazione. Bisogna avere fiducia nel proprio Paese e non fare superficialmente di tutta l’erba un fascio. Solo in questo modo potremo scoprire la verità e rendere degnamente giustizia alla memoria di Stefano e degli altri ragazzi, strappati troppo presto all’affetto dei propri cari.

Alessio Lannutti

venerdì 30 ottobre 2009

Pane, vino e Ciociaria


La Ciociaria, terra ricca di storia, bellezze paesaggistiche e specialità gastronomiche è il fulcro del nuovo progetto della Camera di Commercio di Frosinone che con "Pane, Vino e Ciociaria” intende valorizzare le potenzialità turistiche delle Terre Ciociare. Il nome del progetto è evocativo e mette in evidenza uno degli aspetti che si mira a portare a conoscenza: l'enogastronomia unito alle intrinseche potenzialità naturali del territorio.

L’avvio di questa nuova sponsorizzazione dei novantuno comuni della provincia di Frosinone che si estendono nella Valle del Sacco tra i monti Ernici, Ausoni e Lepini è stata inaugurato con un press-tour che dal 24 al 27 settembre ha coinvolto più di venti giornalisti di settore che hanno percorso da nord a sud la Ciociaria potendo scoprire vari aspetti da quelli culturali, enogastronomici e paesaggistici.

Prima tappa è stata l’inaugurazione dell’Albergo Diffuso di Castro dei Volsci diretto sapientemente da Beatrice Gazelloni e dalle sue soci che hanno saputo riscoprire le bellezze di un tipico paese di montagna riconsegnandolo a nuova vita dando anche la possibilità a giovani ristoratori e chef di sperimentare nuove idee gastronomiche coniugando la tradizione culinaria locale con la necessaria innovazione. Castro dei Volsci rappresenta il primo esempio di albergo diffuso di tutta la Ciociaria e può senza dubbio costituire un input alla sperimentazione di questa nuova forma di ricezione turistica che permette di recuperare spazi e luoghi abbandonati mettendoli a disposizione della collettività.

L’incontro con i territori ciociari ha significato anche conoscere le specialità gastronomiche del luogo dai vini pregiati, tra i migliori del Lazio, come il rosso Cesanese del Piglio l'unico a fregiarsi del riconoscimento DOCG nella regione e il bianco gradevole della Passerina del frosinate ai prodotti ortofrutticoli di eccellenza come i peperoni DOP di Pontecorvo capaci di adattarsi alle più svariate ricette e piatti.

Il press tour ha toccato anche luoghi dal grande peso storico come Anagni, città dei Papi, e nota per le vicende che hanno coinvolto Bonifacio VIII e Filippo il Bello con uno dei pochi casi di oltraggio alla figura papale e in cui è possibile ammirare uno degli esempi di arte medievale che si è protratto fino ad oggi in maniera totalmente intatta. La cripta della Cattedrale è infatti un gioiello artistico di grandissimo spessore con un pregiatissimi affreschi di tre grandi maestri che già nel 1200 precedevano gli studi sulla prospettiva portati al successo da Giotto un secolo dopo e poi un intero pavimento in stile cosmatesco completamente intatto.

Enogastronomia, arte, storia si uniscono anche alle bellezze paesaggistiche delle riserve naturali del parco nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise che comprende la zona della Valle Di Comino con bellezze floristiche della macchia mediterranea come il raro corbezzolo e faunistiche di grandissima varietà che è possibile percorrere attraverso sentieri ed apprezzare come luogo di relax e tranquillità nelle numerose country house di pregio come il relais Valle dell’Aquila dove il turista può immergersi nella natura in un ambiente totalmente bioarchitettonico.

Le potenzialità delle Terre di Ciociaria saranno ulteriormente valorizzate dal progetto “Pane Vino e Ciociaria” nei prossimi appuntamenti tra cui spicca nel primo week end di novembre con un incontro con i sapori ciociari dove l’intera provincia di Frosinone sarà animata da eventi che coinvolgeranno ristoratori, albergatori e i numeri operatori turistici.

Francesca Ragno

L'inceneritore più grande d'Europa che fine farà?


La giunta Marrazzo aveva previsto la costruzione del più grande impianto di termovalorizzazione d'Europa ad Albano, cittadina dei Castelli Romani, nonostante l'opposizione delle popolazioni locali. Ora dopo le dimissioni del Presidente quale sarà il destino di questo quarto impianto di incenerimento dei rifiuti del Lazio?

Appena dieci giorni fa migliaia di cittadini di Albano sono scesi in piazza con un solo intento e con un solo motto: "L'inceneritore non glielo faremo costruire!". Ma a quale inceneritore si oppongono i cittadini di Albano? L'opposizione è rivolta alla costruzione del quarto impianto di termovalorizzazione del Lazio, il più grande d'Europa che dovrebbe sorgere a pochi chilometri di distanza da quello di Colleferro, da quello di Malagrotta e dalla turbogas di Aprilia in un territorio quello dai Castelli Romani, noti in tutto il mondo per la bellezza dei territori e le eccellenze dei prodotti enogastronomici.

Il termovalorizzatore in questione sarà un gassificatore che produrrà energia elettrica e verrà alimentato in ingresso dal cosiddetto Cdr (Combustibile derivato dai rifiuti), ovvero tutto quel materiale riciclabile come carta, legno, plastica, stracci e gomma, arricchito di carbon cock. A supporto della struttura verrà realizzata un'ulteriore cava nella discarica di Roncigliano, destinata a ospitare i rifiuti speciali di scarto dell'incenerimento, i cui costi di mineralizzazione e vetrizzazione (ossia la trasformazione in vetro) sarebbero troppo alti da sostenere.

I comitati cittadini hanno presentato numerosi ricorsi al Tar per chiedere la sospensione della valutazione d’impatto ambientale in un primo momento negativa, ma improvvisamente diventata positiva dopo l’intervento dell’assessore ai rifiuti della Regione Lazio Di Carlo, destituito un anno fa dopo i servizi della trasmissione Report che lo vedevano in stretta comunanza con l'avvocato Cerroni proprietario della discarica di Malagrotta di Roma e del gruppo Coema che insieme all'AMA e ad Acea dovrà costruire l'impianto di termovalorizzazione di Albano.

La domanda che ci si pone: conviene costruire un quarto impianto di termovalorizzazione che brucerebbe solo il 6% dei rifiuti e il restante 94% conferito in discarica? La risposta della Regione è stata che magari la carta si può riciclare, ma la plastica non tutta e allora meglio bruciare tutto! I cittadini albanensi non si danno per vinti, la costruzione dell'inceneritore sarebbe l'ennesima beffa ambientale per un territorio che già da anni soffre di crisi ambientali: l'abbassamento drastico del lago, la carenza idrica con il razionamento dell'acqua settimanale, l'inquinamento dell'aria che secondo un’inchiesta dell’Espresso causa un alto tasso di tumori e malattie respiratorie al di sopra della media nazionale.

L'inceneritore sarebbe una beffa per i contadini della zona che si vedrebbero privati della salubrità dei terreni messi già a dura prova dalla decennale presenza della discarica di Roncigliano e per le aziende agricoli dei paesi circostanti che rischiano di perdere i marchi di qualità doc e igp perché l'Unione Europea vieta la presenza degli inceneritori vicino ai territori in cui si producono prodotti con marchi europei: un addio segnato per i vini frascati DOC e Velletri DOC? Chi lo sa!

Proprio per cercare di contrastare la costruzione di ciò che molti chiamano un “ecomostro” è partita la campagna Non Bruciamoci il Futuro (www.nonbruciamocilfuturo.org) che da mesi raccoglie firme per presentare una proposta di legge regionale che punti sul riciclaggio dei rifiuti e sulla raccolta differenziata e non sull'incenerimento visto che inoltre la quantità dei rifiuti prodotti nei Castelli Romani non sarebbe sufficiente per far funzionare a pieno ritmo un impianto così imponente e sarebbe necessario "importarli" da Roma (che ha già un inceneritore se pur ancora sequestrato dalla magistratura a Malagrotta) e forse dalla Campania.

Il clima elettorale alle porte di certo nei territori dei Castelli Romani non giocava a favore di Piero Marrazzo, vista la scelta di dare nel mese di agosto l’autorizzazione all’apertura dei cantieri del termovalorizzazione nonostante l'opposizione dei comitati e dello stesso consiglio comunale. Quindi, in contemporanea con lo scoppio dello scandalo che ha coinvolto il presidente della Regione Lazio, Bruno Astorre, Presidente del Consiglio regionale del Lazio e Carlo Ponzo, Presidente della Commissione Bilancio, avevano chiesto una sospensiva delle autorizzazioni dell’impianto di Albano visto tre ricorsi pendenti al TAR e visto che molti comuni hanno avviato già da tempo la raccolta differenziata finanziata dalla Provincia di Roma era meglio ripensare al progetto di termovalorizzatore, dove più che le ragioni politiche hanno sempre prevalso le ragioni economiche di società ed industriali e mai le ragioni della salute ambientale e dei cittadini.

Ora il presidente Marrazzo si è dimesso per lo scandalo e i ricatti che lo hanno coinvolto e sicuramente è il caso di chiederci: che destino avrà l'inceneritore di Albano? Verrà costruito? Si sospenderà l'iter di autorizzazione? Certo che con un presidente dimissionario e indisponibile si apre un grande enigma, che coinvolge migliaia di cittadini e la salubrità del loro ambiente. Auspichiamo che qualcuno fornisca una risposta, certa però e non una semplice affermazione di carattere elettorale che lascia il tempo che trova. Di sicuro infatti l'impianto di termovalorizzazione di Albano sarà uno dei punti centrali della prossima campagna elettorale che si prospetta alquanto pepata e agguerrita.

Francesca Ragno

mercoledì 16 settembre 2009

Il futuro dei giovani? Nascosto!!!


Si parla tanto di precariato, disoccupazione giovanile, laureati in cerca perenne di un posto di lavoro fisso che permetta di farsi una famiglia e delle certezze. Tante parole dei politici, tanti studi degli economisti e numeri degli statistici, ma mai si cerca di focalizzare l’attenzione sul disagio vissuto a fondo dalle giovani generazioni che pur con titoli di studi in tasca di alto livello e tante speranze sono messi di fronte ad una difficile realtà fatta di illusioni, invii infiniti di curricula e poche certezze.

A fotografare il travagliato percorso giovanile dal mondo universitario a quello lavorativo ci ha pensato Antonio Sangineto, regista della Rai e collaboratore per anni di Mario Monicelli, che nel suo romanzo di esordio ha voluto descrivere i sogni, le ambizioni e le tante delusioni di un giovane neo laureato dal futuro però incerto o meglio come recita il titolo del romanzo nascosto.

“Il Futuro Nascosto” è infatti uno dei pochi romanzi che cerca di dare voce al disagio giovanile attraverso la storia di Zerach, un ragazzo come tanti, sveglio, intelligente, ironico. Laureatosi, s’affaccia al mondo in cerca di un lavoro, scontrandosi subito con una realtà ostile e beffarda che fa a pezzi sogni di carriera e sogni d’amore, in una capitale Roma troppo grande e piena di vinti.

Un romanzo di grande attualità dove oltre a narrare le difficoltà di trovare un lavoro dopo la laurea, l’impossibilità delle giovani coppie di concretizzare i loro rapporti si mettono alla luce alcuni aspetti di grande impatto sull’opinione pubblica come il clientelarismo e le raccomandazioni contro il vero valore delle persone o la ricerca di una società diversa dove si possano riscoprire valori ormai perduti come quello della vera amicizia.

L’autore Antonio Sangineto ha rilasciato per Antitesi un’intervista che vuole essere un dialogo con lo scrittore per capire alcuni aspetti del romanzo, di cui vi invitiamo alla lettura.

Da cosa ha preso spunto per scrivere questo romanzo? Da una sua constatazione delle realtà o magari da dirette esperienze familiari?

Personalmente ho sempre avuto un background cinematografico visto i miei studi universitari su Pasolini e sulla sua lettura letteraria e filmica della realtà e dopo l’ennesima bocciatura di una mia sceneggiatura ho sentito il bisogno di riattivare quel mondo poetico pasoliniano che ha ispirato anche il mio modo di essere. Proprio dopo aver saputo del mancato finanziamento del mio film (dal titolo “30 e loro” ndr) ho incontrato sotto casa un signore, che di mestiere faceva il barbiere, che era riuscito ad ottenere un finanziamento di ben 370 mila euro per un documentario e da lì ho capito che dovevo dare un senso a tutto il lavoro che avevo fatto fino ad allora. Ho iniziato a girovagare nei quartieri di Roma che conoscevo poco e in cui Pasolini aveva ambientato i suoi romanzi più famosi e allora tornando a casa ho deciso di scrivere il mio romanzo “Il Futuro Nascosto”. Mi sono subito chiesto quale stile dare al romanzo e ho immaginato che l’imput doveva essere come un ruscello per far sì che la stesura e la lettura fossero fluide e così ho potuto affrontare le problematiche sociali, la caduta dei valori per cui le persone valgono più per quello che hanno che per quello che sono. I miei personaggi sono delle sfaccettature della società, delle varie forme di emarginazione e dei drammi esistenziali.

Raramente in film e libri si parla delle difficoltà delle giovani generazioni ad aprirsi al mondo del lavoro e rari sono coloro che hanno affrontato la tematica: mi viene in mente Paolo Virzì con il suo film “Tutta la vita davanti” o Simone Cristicchi con la sua canzone “Laureata precaria”. Come mai questa reticenza nei confronti di un tema sociale così rilevante?

Ormai la cultura è spesso omologata alla televisione così come il cinema e la letteratura, se si affrontano tematiche sociali lo si fa per demagogia sociale. Toccare il tema del precariato giovanile vuol dire toccare un nervo scoperto della società, la mia è stata una reazione culturale visto, come descrivo nel mio romanzo, c’è un nepotismo che blocca il talento e la genialità e si sfrutta la gente. La vera cultura non c’è più, non abbiamo più un Moravia o un Pasolini, si fa spesso demagogia culturale cerando delle affermazioni sociali individuali.

Il futuro nascosto: è nascosto perché è coperto da qualcosa che lo nasconde o è nascosto perché non c’è nulla e bisogna dare modo di costruirlo e fornire gli strumenti per porlo in essere?

Il futuro di per sé è nascosto; mi sono reso conto che qualunque giovane che sceglieva per se un determinato indirizzo di vita poi si scontrava contro chi questi spazi li gestiva e sbarrava l’ingresso. Le responsabilità in questo caso anche politiche sono di tutte le forze, nessuna esclusa. Le responsabilità vanno condivise in quanto si guarda al solo interesse personale, mancando la percezione delle motivazioni di un interesse generale.

Se dovesse incontrare un politico, che ha in mano gli strumenti per cambiare la situazione sociale descritta nel suo romanzo, cosa gli direbbe?

Non gli direi nulla, non mi capirebbe e mi riderebbe in faccia. Non ci parlerei, non avrei nulla da dire poiché sarebbe come parlare al vento. In Italia non abbiamo un Obama con cui sperare di cambiare le cose. Rimango convinto di una convinzione, che mi fa sperare che il mio lavoro non sia del tutto inutile. Credo che i pensieri sono come polline che attecchisce e arriva alla gente e come diceva Stendhal “un romanzo è uno specchio che percorre una strada maestra. A volte riflette l'azzurro del cielo, a volte il fango delle pozzanghere.”, che è quello che ho cercato di rappresentare con la vita di Zerach nel mio romanzo.

Francesca Ragno

mercoledì 2 settembre 2009

Quando la "libertà" è affascinata dalla dittatura


La politica estera è rappresentata dalle relazioni internazionali intrattenute reciprocamente dai governi dei vari Stati. Molto spesso, è specchio dei rapporti di convenienza esistenti tra i paesi stessi. L’Italia, storicamente - a differenza di altre nazioni europee - non si è mai trovata in una situazione di equiordinazione con le altre grandi realtà internazionali. Esempio lampante è la sudditanza nei riguardi degli Stati Uniti d’America, eredità delle vicende del secondo conflitto mondiale. Tale situazione di subordinazione, determinata in gran parte dalla riconoscenza del popolo italiano per il piano Marshall, è cresciuta esponenzialmente con il passare del tempo.

Il nostro momento più alto sul piano internazionale risale al periodo del governo Craxi - personaggio senza ombra di dubbio negativo per la nostra nazione (e grande amico di Muhammar Gheddafi, di cui parleremo più avanti, che gli deve addirittura la vita) - nell’episodio della “crisi di Sigonella”, forse prima vera circostanza nella quale lo Stato italiano impose con fermezza la propria sovranità agli USA. Da quel momento in poi iniziò la fase discendente della politica estera italiana, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Mai era capitato negli anni che il nostro paese subisse un vero e proprio ricatto da uno Stato canaglia. Ebbene sì, il caro governo delle “libertà” (libertà forse intese con riguardo ai costumi sessuali dei suoi esponenti, viste le vicende degli ultimi tempi) dopo averci mostrato da vicino come è fatto un dittatore - ovviamente con lampanti finalità pedagogiche - invitando il leader libico Muhammar Gheddafi a Roma in giugno, dopo aver concluso accordi capestro con la Libia in materia di contrasto all’immigrazione clandestina (quando sarebbe stato più semplice ed economico istituire in Italia la zona contigua), ha deciso di confermare la visita a Tripoli del Presidente del Consiglio a pochissimi giorni dalla liberazione da parte delle autorità scozzesi dell’attentatore di Lockerbie. Al-Megrahi, ormai malato terminale, è stato festeggiato al rientro in Libia come un eroe. Scene disgustose, accolte con sdegno in ogni angolo del globo, ma non in Italia. Roba da rimpiangere la politica estera “cowboy” di Ronald Reagan.

Gheddafi è un dittatorucolo da quattro soldi, terrorista, nemico della democrazia, presuntuoso, spaccone e arrogante. Per di più ha un pessimo gusto nel vestire: ha circa 70 anni e gira ancora agghindato come il Michael Jackson del periodo di Thriller e di Bad. A Roma si è presentato con atteggiamenti da padrone di casa, portando sul petto la foto di un eroe anti-italiano del periodo post-coloniale. Ha fatto le solite quattro sparate da bullo e prontamente gli esponenti politici che lo ospitavano sono stati costretti a dissociarsi. Dopo la contestata visita all’Università della Sapienza, ha chiesto addirittura - senza successo - di parlare alla gente dalla balconata di Piazza Venezia. Fortunatamente, qualche parlamentare di buon senso, fra le polemiche generali della maggioranza, è riuscito ad impedire che il colonnello tenesse il discorso programmato nell’aula del Senato. Sarebbe stata la morte della democrazia italiana. Per carità di Dio, fosse venuto in visita il comunista Castro qualche parlamentare del Pdl si sarebbe incatenato in Piazza Colonna, ma Gheddafi, in quanto compagno di merende del nostro premier, non si tocca.

Berlusconi si è persino scusato con la Libia per gli anni del dominio coloniale. Personalmente non riteniamo che l’Italia debba scusarsi per azioni poste in essere oltre mezzo secolo fa da una dittatura che opprimeva e teneva in giogo il nostro paese, prima ancora della Libia. Senza tenere poi conto delle rappresaglie libiche degli anni successivi nei confronti dei cittadini italiani. Le scuse, peraltro, andrebbero fatte alle popolazioni vessate, non ad un dittatore che si permette di giustificare il terrorismo internazionale e che indottrina i suoi successori all’odio verso l’occidente. I parenti di Gheddafi infatti non sono da meno: uno dei figli, trattenuto qualche tempo fa dalle autorità svizzere, aveva auspicato la cancellazione della Confederazione Elvetica dalle cartine geografiche. Assurdo.

I rapporti con la Libia, purtroppo, sono questi. Oggi gli accordi sono siglati ed il nostro paese è costretto a rispettarli (nella vana speranza che la controparte faccia altrettanto). Pattugliamento congiunto, dicono loro. In realtà l’Italia si impegna a costruire infrastrutture nel paese africano e fornisce motovedette ai libici, che loro utilizzano per finalità personali - come ad esempio fermare i pescherecci italiani in acque internazionali, in barba alle più elementari norme di diritto internazionale - non certo per impedire l’esodo degli immigrati clandestini verso le nostre coste, grosso affare per molti schiavisti di quelle parti.

Proprio adesso, nel momento in cui le relazioni internazionali tra Libia e comunità internazionale sono (giustamente) ai minimi storici per il caso Al-Megrahi - sembra proprio che quest’estate la giustizia abbia deciso di abdicare, visto il trend di liberare terroristi sanguinari: Fioravanti docet - il nostro Presidente del Consiglio ha deciso di non rinunciare alla visita a Tripoli. Ciò non bastasse, il Ministero della Difesa ha gentilmente offerto (tanto paga Pantalone) un’esibizione delle Frecce Tricolori in occasione dei 40 anni di governo (o dittatura, il nostro non si offenderà di certo) del colonnello Muhammar Gheddafi. Di tutta risposta le autorità libiche hanno richiesto all’Aeronautica Militare Italiana l’utilizzo di fumogeni verdi in luogo di quelli classici tricolore. Al secco diniego ricevuto, hanno risposto osteggiando le esercitazioni della nostra pattuglia acrobatica.

Gheddafi o meno, possiamo affermare senza alcun timore di essere smentiti che la politica estera italiana - a differenza di quanto vogliono farci credere i propagandisti della maggioranza - con il governo Berlusconi III ha veramente toccato il fondo del barile.

Alessio Lannutti