mercoledì 16 settembre 2009

Il futuro dei giovani? Nascosto!!!


Si parla tanto di precariato, disoccupazione giovanile, laureati in cerca perenne di un posto di lavoro fisso che permetta di farsi una famiglia e delle certezze. Tante parole dei politici, tanti studi degli economisti e numeri degli statistici, ma mai si cerca di focalizzare l’attenzione sul disagio vissuto a fondo dalle giovani generazioni che pur con titoli di studi in tasca di alto livello e tante speranze sono messi di fronte ad una difficile realtà fatta di illusioni, invii infiniti di curricula e poche certezze.

A fotografare il travagliato percorso giovanile dal mondo universitario a quello lavorativo ci ha pensato Antonio Sangineto, regista della Rai e collaboratore per anni di Mario Monicelli, che nel suo romanzo di esordio ha voluto descrivere i sogni, le ambizioni e le tante delusioni di un giovane neo laureato dal futuro però incerto o meglio come recita il titolo del romanzo nascosto.

“Il Futuro Nascosto” è infatti uno dei pochi romanzi che cerca di dare voce al disagio giovanile attraverso la storia di Zerach, un ragazzo come tanti, sveglio, intelligente, ironico. Laureatosi, s’affaccia al mondo in cerca di un lavoro, scontrandosi subito con una realtà ostile e beffarda che fa a pezzi sogni di carriera e sogni d’amore, in una capitale Roma troppo grande e piena di vinti.

Un romanzo di grande attualità dove oltre a narrare le difficoltà di trovare un lavoro dopo la laurea, l’impossibilità delle giovani coppie di concretizzare i loro rapporti si mettono alla luce alcuni aspetti di grande impatto sull’opinione pubblica come il clientelarismo e le raccomandazioni contro il vero valore delle persone o la ricerca di una società diversa dove si possano riscoprire valori ormai perduti come quello della vera amicizia.

L’autore Antonio Sangineto ha rilasciato per Antitesi un’intervista che vuole essere un dialogo con lo scrittore per capire alcuni aspetti del romanzo, di cui vi invitiamo alla lettura.

Da cosa ha preso spunto per scrivere questo romanzo? Da una sua constatazione delle realtà o magari da dirette esperienze familiari?

Personalmente ho sempre avuto un background cinematografico visto i miei studi universitari su Pasolini e sulla sua lettura letteraria e filmica della realtà e dopo l’ennesima bocciatura di una mia sceneggiatura ho sentito il bisogno di riattivare quel mondo poetico pasoliniano che ha ispirato anche il mio modo di essere. Proprio dopo aver saputo del mancato finanziamento del mio film (dal titolo “30 e loro” ndr) ho incontrato sotto casa un signore, che di mestiere faceva il barbiere, che era riuscito ad ottenere un finanziamento di ben 370 mila euro per un documentario e da lì ho capito che dovevo dare un senso a tutto il lavoro che avevo fatto fino ad allora. Ho iniziato a girovagare nei quartieri di Roma che conoscevo poco e in cui Pasolini aveva ambientato i suoi romanzi più famosi e allora tornando a casa ho deciso di scrivere il mio romanzo “Il Futuro Nascosto”. Mi sono subito chiesto quale stile dare al romanzo e ho immaginato che l’imput doveva essere come un ruscello per far sì che la stesura e la lettura fossero fluide e così ho potuto affrontare le problematiche sociali, la caduta dei valori per cui le persone valgono più per quello che hanno che per quello che sono. I miei personaggi sono delle sfaccettature della società, delle varie forme di emarginazione e dei drammi esistenziali.

Raramente in film e libri si parla delle difficoltà delle giovani generazioni ad aprirsi al mondo del lavoro e rari sono coloro che hanno affrontato la tematica: mi viene in mente Paolo Virzì con il suo film “Tutta la vita davanti” o Simone Cristicchi con la sua canzone “Laureata precaria”. Come mai questa reticenza nei confronti di un tema sociale così rilevante?

Ormai la cultura è spesso omologata alla televisione così come il cinema e la letteratura, se si affrontano tematiche sociali lo si fa per demagogia sociale. Toccare il tema del precariato giovanile vuol dire toccare un nervo scoperto della società, la mia è stata una reazione culturale visto, come descrivo nel mio romanzo, c’è un nepotismo che blocca il talento e la genialità e si sfrutta la gente. La vera cultura non c’è più, non abbiamo più un Moravia o un Pasolini, si fa spesso demagogia culturale cerando delle affermazioni sociali individuali.

Il futuro nascosto: è nascosto perché è coperto da qualcosa che lo nasconde o è nascosto perché non c’è nulla e bisogna dare modo di costruirlo e fornire gli strumenti per porlo in essere?

Il futuro di per sé è nascosto; mi sono reso conto che qualunque giovane che sceglieva per se un determinato indirizzo di vita poi si scontrava contro chi questi spazi li gestiva e sbarrava l’ingresso. Le responsabilità in questo caso anche politiche sono di tutte le forze, nessuna esclusa. Le responsabilità vanno condivise in quanto si guarda al solo interesse personale, mancando la percezione delle motivazioni di un interesse generale.

Se dovesse incontrare un politico, che ha in mano gli strumenti per cambiare la situazione sociale descritta nel suo romanzo, cosa gli direbbe?

Non gli direi nulla, non mi capirebbe e mi riderebbe in faccia. Non ci parlerei, non avrei nulla da dire poiché sarebbe come parlare al vento. In Italia non abbiamo un Obama con cui sperare di cambiare le cose. Rimango convinto di una convinzione, che mi fa sperare che il mio lavoro non sia del tutto inutile. Credo che i pensieri sono come polline che attecchisce e arriva alla gente e come diceva Stendhal “un romanzo è uno specchio che percorre una strada maestra. A volte riflette l'azzurro del cielo, a volte il fango delle pozzanghere.”, che è quello che ho cercato di rappresentare con la vita di Zerach nel mio romanzo.

Francesca Ragno

mercoledì 2 settembre 2009

Quando la "libertà" è affascinata dalla dittatura


La politica estera è rappresentata dalle relazioni internazionali intrattenute reciprocamente dai governi dei vari Stati. Molto spesso, è specchio dei rapporti di convenienza esistenti tra i paesi stessi. L’Italia, storicamente - a differenza di altre nazioni europee - non si è mai trovata in una situazione di equiordinazione con le altre grandi realtà internazionali. Esempio lampante è la sudditanza nei riguardi degli Stati Uniti d’America, eredità delle vicende del secondo conflitto mondiale. Tale situazione di subordinazione, determinata in gran parte dalla riconoscenza del popolo italiano per il piano Marshall, è cresciuta esponenzialmente con il passare del tempo.

Il nostro momento più alto sul piano internazionale risale al periodo del governo Craxi - personaggio senza ombra di dubbio negativo per la nostra nazione (e grande amico di Muhammar Gheddafi, di cui parleremo più avanti, che gli deve addirittura la vita) - nell’episodio della “crisi di Sigonella”, forse prima vera circostanza nella quale lo Stato italiano impose con fermezza la propria sovranità agli USA. Da quel momento in poi iniziò la fase discendente della politica estera italiana, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Mai era capitato negli anni che il nostro paese subisse un vero e proprio ricatto da uno Stato canaglia. Ebbene sì, il caro governo delle “libertà” (libertà forse intese con riguardo ai costumi sessuali dei suoi esponenti, viste le vicende degli ultimi tempi) dopo averci mostrato da vicino come è fatto un dittatore - ovviamente con lampanti finalità pedagogiche - invitando il leader libico Muhammar Gheddafi a Roma in giugno, dopo aver concluso accordi capestro con la Libia in materia di contrasto all’immigrazione clandestina (quando sarebbe stato più semplice ed economico istituire in Italia la zona contigua), ha deciso di confermare la visita a Tripoli del Presidente del Consiglio a pochissimi giorni dalla liberazione da parte delle autorità scozzesi dell’attentatore di Lockerbie. Al-Megrahi, ormai malato terminale, è stato festeggiato al rientro in Libia come un eroe. Scene disgustose, accolte con sdegno in ogni angolo del globo, ma non in Italia. Roba da rimpiangere la politica estera “cowboy” di Ronald Reagan.

Gheddafi è un dittatorucolo da quattro soldi, terrorista, nemico della democrazia, presuntuoso, spaccone e arrogante. Per di più ha un pessimo gusto nel vestire: ha circa 70 anni e gira ancora agghindato come il Michael Jackson del periodo di Thriller e di Bad. A Roma si è presentato con atteggiamenti da padrone di casa, portando sul petto la foto di un eroe anti-italiano del periodo post-coloniale. Ha fatto le solite quattro sparate da bullo e prontamente gli esponenti politici che lo ospitavano sono stati costretti a dissociarsi. Dopo la contestata visita all’Università della Sapienza, ha chiesto addirittura - senza successo - di parlare alla gente dalla balconata di Piazza Venezia. Fortunatamente, qualche parlamentare di buon senso, fra le polemiche generali della maggioranza, è riuscito ad impedire che il colonnello tenesse il discorso programmato nell’aula del Senato. Sarebbe stata la morte della democrazia italiana. Per carità di Dio, fosse venuto in visita il comunista Castro qualche parlamentare del Pdl si sarebbe incatenato in Piazza Colonna, ma Gheddafi, in quanto compagno di merende del nostro premier, non si tocca.

Berlusconi si è persino scusato con la Libia per gli anni del dominio coloniale. Personalmente non riteniamo che l’Italia debba scusarsi per azioni poste in essere oltre mezzo secolo fa da una dittatura che opprimeva e teneva in giogo il nostro paese, prima ancora della Libia. Senza tenere poi conto delle rappresaglie libiche degli anni successivi nei confronti dei cittadini italiani. Le scuse, peraltro, andrebbero fatte alle popolazioni vessate, non ad un dittatore che si permette di giustificare il terrorismo internazionale e che indottrina i suoi successori all’odio verso l’occidente. I parenti di Gheddafi infatti non sono da meno: uno dei figli, trattenuto qualche tempo fa dalle autorità svizzere, aveva auspicato la cancellazione della Confederazione Elvetica dalle cartine geografiche. Assurdo.

I rapporti con la Libia, purtroppo, sono questi. Oggi gli accordi sono siglati ed il nostro paese è costretto a rispettarli (nella vana speranza che la controparte faccia altrettanto). Pattugliamento congiunto, dicono loro. In realtà l’Italia si impegna a costruire infrastrutture nel paese africano e fornisce motovedette ai libici, che loro utilizzano per finalità personali - come ad esempio fermare i pescherecci italiani in acque internazionali, in barba alle più elementari norme di diritto internazionale - non certo per impedire l’esodo degli immigrati clandestini verso le nostre coste, grosso affare per molti schiavisti di quelle parti.

Proprio adesso, nel momento in cui le relazioni internazionali tra Libia e comunità internazionale sono (giustamente) ai minimi storici per il caso Al-Megrahi - sembra proprio che quest’estate la giustizia abbia deciso di abdicare, visto il trend di liberare terroristi sanguinari: Fioravanti docet - il nostro Presidente del Consiglio ha deciso di non rinunciare alla visita a Tripoli. Ciò non bastasse, il Ministero della Difesa ha gentilmente offerto (tanto paga Pantalone) un’esibizione delle Frecce Tricolori in occasione dei 40 anni di governo (o dittatura, il nostro non si offenderà di certo) del colonnello Muhammar Gheddafi. Di tutta risposta le autorità libiche hanno richiesto all’Aeronautica Militare Italiana l’utilizzo di fumogeni verdi in luogo di quelli classici tricolore. Al secco diniego ricevuto, hanno risposto osteggiando le esercitazioni della nostra pattuglia acrobatica.

Gheddafi o meno, possiamo affermare senza alcun timore di essere smentiti che la politica estera italiana - a differenza di quanto vogliono farci credere i propagandisti della maggioranza - con il governo Berlusconi III ha veramente toccato il fondo del barile.

Alessio Lannutti

lunedì 31 agosto 2009

L'estate sta finendo, le polemiche no


In estate, si sa, l’attività istituzionale viene sospesa per un breve periodo allo scopo di consentire agli esponenti dei vari partiti politici - vogliano i Lettori scusare il gergo calcistico utilizzato a sproposito - di andare in “ritiro” per prepararsi al meglio ad una nuova stagione politica. I toni si smorzano e gli animi si placano, o almeno questo è ciò che dovrebbe accadere.

Allo stesso modo, si sa altrettanto bene che i vari mezzi d’informazione, anche ad agosto, hanno l’incombente necessità di riempire le proprie pagine/i propri spazi radiotelevisivi per mettere in condizione i vari redattori, collaboratori, dipendenti, di portare a casa la sudata “pagnotta”. Fortunatamente, anche in piene vacanze, la mania di protagonismo di alcuni politici nostrani - totalmente incuranti dei pericoli estivi, delle temperature africane delle nostre città e dei temibili colpi di sole - viene in soccorso dei poveri lavoratori dell’informazione. Così, i toni del dibattito si spostano sui registri del tragicomico e del grottesco ed il giornalismo finisce per sconfinare in terreni che mai avrebbe immaginato di calcare in altri periodi dell’anno. Abbiamo assistito ad improbabili batti e ribatti sul ruolo del professore di religione negli scrutini, sulla rappresentatività dell’Inno di Mameli, sulle capacità scolastiche del figlio del Senatur, giungendo addirittura ad inscenare una sorta di campionato - contest, direbbero gli anglofoni - dell’intolleranza, per decretare una volta per tutte l’esponente leghista più ostile nei riguardi degli immigrati clandestini (per la cronaca, gara vinta da Borghezio dopo i tempi supplementari).

Del resto, durante le vacanze la questione è in questi termini: il telegiornale si guarda perché concilia l’appetito - o il sonno, dipende dai punti di vista - ed il quotidiano si compra soltanto per il sudoku, o giù di lì. La vita continua lo stesso. Ma l’estate è un po’ pazzerella e spesso i giornalisti stessi prendono in mano l’iniziativa ed escono fuori dalle righe con dichiarazioni shock, arrivando in qualche occasione persino a turbare il mondo dei media e della politica stessa con i propri contegni.

Il gradino più alto del podio in occasione del galà dell’informazione trash dell’estate 2009 va sicuramente riservato a Vittorio Feltri, fresco (ma non troppo) direttore del Giornale, quotidiano di proprietà della famiglia Berlusconi. Il nostro è riuscito in pochissimi giorni ad incrinare nuovamente i rapporti tra il premier e la Chiesa - con l’annullamento da parte della Santa Sede della cena riparatrice Berlusconi-Bertone - e ad infuocare il dibattito politico appena sopito.

Rimanendo sempre dell’opinione che appaia alquanto bizzarra la necessità di un avallo da parte della Chiesa nei riguardi della vita privata di una persona, chiunque essa sia, ricapitoliamo ai Lettori meno attenti - e chi può biasimarli visto il periodo vacanziero? - le vicende trascorse. Nelle scorse settimane alcuni media italiani ed esteri hanno portato a conoscenza dell’opinione pubblica la vita dissoluta di Silvio Berlusconi, documentando comportamenti apparentemente sorretti da una condotta immorale. L’Avvenire, quotidiano vicino alla Chiesa cattolica, si è immediatamente schierato contro il Presidente del Consiglio, ritenuto reo di portare avanti uno stile di vita non consono alla carica ricoperta. Il nostro premier ha risposto agli attacchi dei vari mezzi d’informazione attraverso le vie legali e con dichiarazioni pubbliche, sia in televisione che sulla carta stampata, prendendo particolarmente in considerazione l’operato de l’Avvenire. A questo punto Vittorio Feltri, neo-direttore della “Pravda” di casa Berlusconi, ha ben pensato di venire in aiuto del proprio mentore con una sconsiderata e ficcante invettiva contro l’Avvenire ed il suo direttore Dino Boffo, millantando soffiate da parte di sedicenti “gole profonde”, pescate chissà dove in qualche recondito meandro del sistema giudiziario italiano, ed etichettando il collega come un omosessuale (fin qui, se non fosse che il collega dirige l’Avvenire, non ci sarebbe nulla di male) e per giunta molestatore. Ovviamente le veline passate al Giornale erano prive di fondamento e le notizie pubblicate del tutto campate in aria. Nihil sub sole novi.

Forse, qualcuno lassù sta già rimpiangendo Mario Giordano.

Alessio Lannutti

mercoledì 22 luglio 2009

Recensione a Spuma sulle spighe 2 della Compagnia Anime di Carta in un giardino di Cristallo


Regia: Emanuela Petroni

Dramma di cupa e sobria potenza esistenziale, privo di indulgenze, preciso, quello messo in scena dalla Compagnia Anime di Carta per la Regia di Emanuela Petroni. Emerge subito dalla coralità di insieme di trovarsi al cospetto di un registro teatrale sperimentale dove però la fedeltà al testo si enuclea in tutta la sua centralità nella buona gestione dei singoli ruoli attoriali che danno l’impressione di essere parte di un "documentario fotografico" dove la realtà diviene dato oggettivo e si sostanzia di una locuzione temporale in continua sospensione.

Ed è proprio nello stallo apparente che in rivoli si distilla al tempo di una clessidra inteso come logos che risiede il fulcro dell’opera di Garcia Lorca, sapientemente riadattata dalla giovane regista reatina. Il concetto della casa è magistralmente alterato, quindi non sinonimo di focolare, unione, amore comprensione ma prostrato alla prigionia esistenziale e storica alla quale Bernarda assoggetta le figlie, spietatamente come personificazione di quella figura dittatoriale alla quale Garcia Lorca guarda con orrore e che di li a poco si sarebbe imposta in Spagna.

Da sottolineare è la compressione dello spazio scenico che se in prima battuta potrebbe risultare proibitivo in quanto la recita si svolge all’aperto, in secondo luogo risulta invece estremamente efficace in quanto la buona sincronizzazione degli attori isola bene la figura di Bernarda che imperiosa e spietata troneggia al centro, mentre le figlie obbligate da lei stessa a vestire a lutto sono disposte in forma di mezza luna attorno, quasi a richiamare la natura genitrice del cerchio che a mio avviso non si chiude giustamente in quanto il destino ha frantumato il legame genitoriale.

Le donne che occupano la casa di Bernarda Alba sono nane, costrette in una sorta di amputazione fisica che è sintomo della menomazione morale, e le attrici, recitando in ginocchio, subiscono una costrizione corporale che dà visibilità alla prigione psicologica dei personaggi, una coartazione carceraria che serve a instaurare disagio, nella concisa intuizione della regista Emanuela Petroni.

Dal punto di vista recitativo è apprezzabilissima l’interpretazione di Bernarda, pulita nella dizione e con una buona entratura in generale, mentre potrebbe essere più incisiva nell’uso del bastone che rappresenta il potere autoritario e quindi necessitava di maggiore autorevolezza poiché è proprio l’atteggiamento arrogante che fa si che le figlie ardano di passione interiore che non esiste dittatura in grado di frenare e tanto meno di controllare.

Di notevole spessore risulta l’interpretazione della vecchia madre pazza, lucida nella sua follia senile che vede la casa dunque come trappola, mondo dei conflitti segreti, dei rancori covati, ma che, tuttavia, dovrà preservare la facciata esterna della rispettabilità, per un confronto senza ombre con la comunità. Bellissimo l’iniziale monologo di quest’ultima che catalizza in se l’elemento estetico nell’atto di plasmare una statua dove l’attrice inizialmente è elemento neutro per poi forgiare costantemente l’ immagine di se coniugando in maniera esemplare quei due elementi quali teatro ed arte dove risiede non soltanto il percorso della vita ma il suo stesso futuro in quanto essa scopre e soddisfa nuovi bisogni e piaceri.

Immobilizzate nell'involucro della loro condizione di donne, non conoscono la Donna, la fisicità, la vita, ma provano ad immaginarla ed è quì che assume valenza il ruolo di Ponzia, l'unica che sa realmente guardare dentro di loro e che le spolvera un po' del grigiore in cui sono cresciute.

La Ponzia affonda le mani nel sangue delle ragazze, tastandone l'amore, l'odio, il rancore, la rabbia, l'invidia che ribolliscono nelle loro vene. Un ruolo dove l'attrice della compagnia Anime di Carta è molto brava nei toni recitativi di grande peso espressivo. Tensioni che non possono fare a meno di fuoriuscire, esplodendo nella violenza degli sguardi e nella crudezza delle parole. I respiri soffocati, i sospiri rassegnati, diventantano calore sprigionato, misto ad un'afa opprimente incontenibile che rischia di far sciogliere le pareti e di far dilagare la verità all'esterno.

Ma le mura della Casa di Bernarda Alba, ispessite da anni di dispotismo, di repressioni, di egoismo, di parvenze e di ipocrisie, non crollano e la Verità vi morirà all'interno insieme a Bernarda, che come un simbolo cui neanche la memoria deve sopravvivere verrà ricoperta dagli attori come in un processo iniziatico di scialli. E' la morte che le figlie salutano lierando una nuova civiltà.

Raoul Bianchini

I giovani e la politica


Della generazione «under 30» sono state date descrizioni più o meno fantasiose dai mezzi dell'opinione pubblica e dal mondo intellettuale. Generazione post-ideologica, bulli e senza educazione civica, protagonisti dell'era delle passioni tristi, frutto avvelenato dell'epoca televisiva. Quanti non hanno mai sentito gli adulti ragionare in questi termini dell'universo giovanile? E i giovani si ritrovamo in queste definizioni, che li descrivono senza punti di riferimento valoriali che non siano quelli trasmessi dai talk show televisivi?

Se queste definizioni sono giuste, e se davvero rappresentano in maniera efficace tale generazione, allora ci troviamo di fronte a dei giovani abbandonati ad un individualismo totalizzante, in cui quello che interessa è esclusivamente la propria affermazione e il soddisfacimento dei propri bisogni personali. Insomma, tanti piccoli tronisti o aspiranti veline alla maniera di “Ricordati di me” di Muccino.

In tale contesto, probabilmente non c'è spazio per la politica, se non in chiave minoritaria o forse riservata a piccole elites. Se i giovani sono tutti bulli o esclusivamente interessati alle scarpe di marca, e se non hanno ideali di alcun tipo, perché dovrebbero essere partecipi di uno spazio pubblico? Forse l'unico momento di partecipazione sarebbe il voto, in alcun modo legato a dei riferimenti ideali, ma solamente all'affidabilità dei candidati o alla particolarità di alcune proposte politiche. E l'unica politica possibile a cui si potrebbe aspirare e su cui un movimento politico guadagnerebbe consenso sarebbe quella del pragmatismo della buona amministrazione.

Questa è l'immagine che in gran parte viene data degli «under 30». E le manifestazioni di cui pure i giovani si sono resi protagonisti nello scorso autunno contro il ministro Gelmini sono state spesso derubricate ad espressione di una minoranza radicale, frutto più di un disagio giovanile che di una consapevolezza politica.

Ma è questo il caso? I giovani rappresentati in questo schema?

Certo forse è vera una cosa di questi ragionamenti. Ed è il rischio del ripiegamento di una generazione nel privato, in una dimensione sociale che diventa apolitica. Si rischia di pensare che la dimensione dell'impegno civile sia inutile perché priva di concretezza e di effetti reali sulla vita delle persone. Un ripiegamento non tanto quindi per una presunta mancanza di valori civili tra i giovani, quanto per l'assunzione piuttosto radicata nella società che un cambiamento profondo in questo paese la politica e in particolar modo i partiti non sono in grado di portarlo, e che la politica in fondo non è molto più che populismo per attirare consenso.

I partiti appaiono deboli e senza bussola di fronte alla forza e alla concretezza delle lobbies e degli interessi dei potentati. Si rischia di credere che la realtà sociale sia dettata da comportamenti degli individui e dei corpi sociali immutabili nel tempo. D'altra parte nel senso comune, per fare degli esempi, quando si parla di una burocrazia lenta ed inefficiente, di un'istruzione incapace di rispondere alle sensibilità dei giovani, si pensa che questi problemi non verranno mai risolti.

Le questioni aperte di fronte a noi, ed in particolar modo alla generazione «under 30», sembrano talmente grandi che appaiono spesso insormontabili. Costruire davvero la dimensione europea della vita civile, trovare nuove forme di welfare che servano a superare la precarietà, lavorare per avere una pensione dignitosa, ripulire la politica dai fenomeni di corruzione e liberare il nostro paese dal problema della criminalità organizzata, sono solo esempi di problemi vecchi e nuovi di non facile soluzione, che richiedono riforme o processi sociali coraggiosi. Riforme che cozzano contro interessi forti nel nostro paese, e che spesso la politica sembra troppo debole e complicata per affrontare. E quindi le percepiamo troppo spesso come questioni insite nella società, quasi come un peso imposto, condizione accessoria del vivere assieme. Cose da cui non si può fuggire se non magari cambiando paese, perché non c'è modo di cambiarle attraverso processi di emancipazione collettiva. La cultura ci ha abituato troppo al supereroe, con cui ci possiamo identificare ma che possiamo anche ritenere irrimediabilmente lontano da noi.

E allora che senso ha la politica per un giovane, se sembra non riuscire ad incidere sui problemi delle persone e della collettività? Se il problema principale dei partiti diventa vincere le elezioni successive e produrre una mera alternanza del potere nelle istituzioni, allora tutto viene sommerso dal tatticismo della politica mediatica e scompaiono le grandi battaglie politiche.

In quest'ottica però il problema allora non è l'incapacità di una generazione di sentirsi “animali sociali”, ma la debolezza della politica in questo ultimo decennio nell'incidere sulla realtà e sull'immaginario sociale indicando una prospettiva chiara di futuro e sulle priorità che aveva in mente. Una politica spesso troppo astratta, vissuta nel dibattito pubblico esclusivamente attraverso i giornali e la televisione, che non ha chiesto la partecipazione attiva dei cittadini e dei giovani fra questi, ma solo un voto o nel migliore dei casi un supporto da “fan”.

D'altra parte non ci si può stupire, perché sono i partiti stessi che in questi anni hanno spesso teorizzato la fine delle ideologie e la supremazia del mercato sulla politica. Questo in teoria avrebbe dovuto portare sempre più benessere alla collettività. Un mercato sempre più in grado di permeare la società e di ridurre lo spazio delle scelte pubbliche, con la finanza a farla da padrone. Ed in un contesto come questo la politica ha teorizzato la sua inefficacia, riducendosi a buona amministrazione nel migliore dei casi, e quindi ad una contesa su chi fosse in grado di adempiere al meglio ad alcuni compiti fondamentali (portare crescita all'economia, razionalizzare al meglio la spesa pubblica, abbassare le tasse, ecc.).

In altri casi ci si è trovati di fronte ad una presunta contesa sui valori, di cui la polemica sul berlusconismo è stata l'espressione più riconoscibile, e quindi si è ridotto il confronto politico al problema su quale coalizione avesse il tasso di moralità più elevato. Entrambi i temi dimostrano la debolezza della politica nel farsi promotrice di riforme profonde nella società, e tutto questo è dimostrato fra le altre cose da un'incapacità di mobilitare i cittadini se non in chiave prettamente identitaria (la manifestazione PD del 25 ottobre 2008 mi pare un esempio lampante, come lo era stata quella della PDL del 2 dicembre 2006). E chiaramente le giovani generazioni sono state le prime vittime di questa concezione della politica e dei partiti, perché si può dire che proprio negli anni di più intensa debolezza della politica una generazione è cresciuta, si è formata culturalmente e civilmente, e si è avvicinata al dibattito pubblico. Spesso allontanandosene, pensando alla politica come a qualcosa da scrutare col binocolo, in maniera distratta e solo nei periodi pre-elettorali, e relegandola ad aspetto marginale della propria vita.

Allora come fare per riallacciare un rapporto fra partiti e giovani generazioni? Non vi può essere una soluzione a questo rapporto che prescinda dalla questione della crisi della politica nel nostro paese. Anche perché non solo spesso i problemi che vivono i giovani italiani assomigliano a quelli degli adulti, ma soprattutto perché il dibattito politico in questo paese, anche per i canali attraverso cui passa, è fondamentalmente intergenerazionale.

I momenti più frequenti di discussione politica per un giovane sono davanti ad una televisione accanto ai propri genitori. Però forse ricostruire dei partiti credibili e radicati nella società servirebbe più a quella generazione che ai più anziani, per un motivo semplice: i giovani si stanno formando in questi anni, e l'idea che avranno anche in futuro della politica passa principalmente per quello che vivono oggi. Le generazioni precedenti hanno comunque ormai acquisito un'idea sulla politica che gli viene dalla loro esperienza passata, dalla storia di questo paese. E in questo senso continuano, seppur con sempre maggiore disincanto, a votare alle elezioni come dimostra comunque l'alto livello di partecipazione al voto che si registra in Italia.

Quindi, per i giovani soprattutto, serve un nuovo dibattito pubblico e dei partiti che si pongano il problema di una nuova rappresentanza rispetto a questi ultimi anni. Coniugare la presenza nella società (dai territori, ai luoghi di lavoro, alle scuole e le università per le giovani generazioni), le singole proposte sui problemi di questo paese (progetti di legge, azioni amministrative, ecc.), con la capacità di sapere indicare una direzione ideale e una prospettiva di lungo periodo. Perché in questi anni la capacità di saper esprimere proposte di programma sui singoli temi è stata anche buona da parte dei partiti, ed è stata frutto di una seria capacità di analisi dei problemi della società italiana. Per fare un esempio che coinvolge direttamente i giovani, le proposte sulla scuola del centrosinistra, a partire dall'autonomia per arrivare alla riforma dei cicli, erano il risultato di un dibattito importante sulla formazione delle giovani generazioni nella società moderna. Quello che è mancato forse è stata la capacità di saper coniugare tutto questo con una prospettiva credibile di più lungo periodo da offrire ai cittadini. Un elenco di priorità concrete ed ideali, che definisse un progetto per l'Italia. Non un elenco di valori da presentare come carta d'identità e quindi come certificato di sana moralità, ma una cornice ideologica per definire gli obbiettivi da raggiungere, anche in termini ideali.

Pensare che questo non fosse necessario è stato l'errore di questi anni, che ha portato la politica ad essere percepita come inutile in special modo dalle giovani generazioni. Un giovane, se non vede un cammino di fronte a sé che possa essere coronato da obbiettivi da raggiungere, e se non vede delle risposte sul senso di quello che ha intorno, perché dovrebbe percepire come importante la politica e parteciparvi?

Certo, poi tutto questo deve passare dall'astrattezza della discussione teorica alla prassi, che è capacità dei partiti e dei suoi movimenti giovanili di essere presenti nella società con le orecchie drizzate, di elaborare orizzonti che stiano nella storia di questo paese, di costruire partecipazione, iniziativa politica, e mobilitazione sulle proprie battaglie. Non è un passaggio scontato, e passa per il buon funzionamento delle strutture organizzate dei partiti e dei movimenti giovanili e per la capacità delle tante persone e dei tanti ragazzi già impegnati di essere all'altezza delle proprie responsabilità. Se questo accadrà in un prossimo futuro, ne uscirà rafforzata la politica e le giovani generazioni, che vedranno finalmente affrontati con credibilità i loro problemi. In definitiva, ne uscirebbe rafforzata la democrazia nel nostro paese. Nel suo piccolo, ogni iniziativa politica giovanile non può che far bene.

Eugenio Levi

giovedì 16 luglio 2009

Santana a Brescia: spirito sempreverde nonostante vocalist giù di tono e fans…invecchiati


Il tour Europeo di Carlos Santana ha fatto ieri tappa a Brescia, dove in una serata afosa, 30 gradi alle 20:45, circa 4 - 5000 persone hanno potuto ammirare lo smalto ancora lucido dello Sciamano.

Occhi semichiusi, cappello calato quasi a nascondersi, concentrato come un neurochirurgo in sala operatoria o paziente come un sacerdote nel confessionale, Santana si infila nelle sue chitarre a cercarne l’anima, le sfiora, le bussa, le cambia l’un l’altra delicatamente coccolandole, diviene spirito immateriale, afflato musicale, lui stesso anima vera delle sue chitarre. Definire la musicalità di Santana quale rock latino è veramente riduttivo. Il genere Santana merita una sua nozione e una sua menzione indipendente!

Santana parla al pubblico con poche parole per ribadire il suo messaggio, portato concretamente avanti dalla Fondazione Milagros (cui sono stati devoluti 1 € per biglietto), con un messaggio di invito alla compassione, al perdono, invocando pace e amore come fa da 40 anni a questa parte con le sue musiche, le sue parole e soprattutto con le sue opere.

Il pubblico? Beh, il pubblico è un’altra cosa: è una serata calda, il palco di Piazza della Loggia non è pieno, si vedono sedie vuote, ma soprattutto il pubblico è statico, non si eccita neanche nelle prime file, aspetta il passare delle telecamere per elargire un sorriso, ma non riesce proprio a sintonizzarsi con Santana, perde il ritmo non sente le vibrazioni. Vuoi vedere che il pubblico di Santana invecchia e lui no?

Eppure vibrazioni voraci promanano dal placo affollato da ottimi musicisti, Jeff Cressman e Bill Ortiz agli ottoni, Dennis Chambers, Karl Perazzo, Raul Rekow alle percussioni, Benny Retvield al basso e in evidenza su tutti Tommy Anthony alla chitarra elettrica e il tastierista Chester Thompson che quasi ruba la scena a Carlos per come diviene tutt’uno con i suoi strumenti facendoti pensare che da un momento all’altro se lo risucchia la tastiera…

In tanta abbondanza di artisti, Andy Vargas (il vocalist hispano americano) sembra a tratti giù di tono, mentre non male Tony Lindsay, “la pantera nera” come lo definisce Carlos anche se nel complesso - a livello vocale - credo sia mancata qualche voce femminile di supporto.

Il programma ha ripercorso il cammino di Santana da Woodstock Soul Sacrifice, passando per She’s not there, Evil ways, A love supreme, Foo Foo, Smooth, per finire ai grandi successi commerciali Maria Maria, e Corazon Espinado con un omaggio virtuosistico a Rodrigo (concerto di Aranjuez) e qualche scherzo qui e lì come con Besame mucho.

E’ un programma che continua in altre cittá d’Europa da Kitzbuehel in Austria, a Mainz, Straubing, Halle e Dortmund in Germania per finire al circuito di Silverstone il 25 luglio. Non perdetelo!

Raffaele Luise

mercoledì 15 luglio 2009

Toccatemi tutto, ma non il mio Joseph


Roberto Balducci, vaticanista del Tg3, è stato rimosso dal suo incarico. Nel servizio andato in onda domenica 12 luglio durante il telegiornale della sera, aveva definito i presenti in Piazza San Pietro come “quattro gatti che hanno ancora la pazienza di ascoltare il Papa”. Un’uscita sicuramente infelice e in parte non comprensibile, ma - a nostro modestissimo avviso - assolutamente non degna della rimozione del giornalista dall’incarico.

Alle numerose critiche e strumentalizzazioni politiche delle ore successive ha risposto il direttore della testata, Antonio Di Bella, con una tempestiva comunicazione in bacheca: ''a partire da oggi il collega Roberto Balducci non seguirà più il Vaticano''. Nonostante le scuse formali presentate dall’autore della battuta - sicuramente di dubbio gusto - e la presa di posizione in difesa del collega da parte del Comitato di Redazione del Tg3 non c’è stato nulla da fare e la decisione è apparsa immediatamente irremovibile.

Quest’ultimo evento è soltanto una goccia nel mare ed è sempre più evidente l’influenza esercitata dal potere cattolico sul mondo dell’informazione. Intendiamoci, il Papa merita il massimo rispetto da parte di tutti, come la Chiesa Cattolica stessa ed i rappresentanti delle altre religioni presenti in Italia. Ma questo non deve comportare un servilismo assoluto da parte di istituzioni, mezzi di informazione, cittadini alle logiche dell’istituzione ecclesiastica. L’Italia è uno Stato sovrano e laico, libero da qualsiasi ingerenza del potere temporale: questo principio andrebbe ribadito, rimembrato a chi di dovere ed inciso nel bronzo per le generazioni future.

Balducci ha fatto dello spirito in maniera inopportuna, è innegabile. Ma non significa che debba perdere il proprio posto per questa futile motivazione. Se in Italia tutti i giornalisti che fanno humour, criticano, o peggio ancora diffamano - non importa se nell’ambito o meno di un servizio pubblico - dovessero essere sospesi, rimossi dall’incarico o licenziati, allora sì rimarremmo davvero in quattro gatti a svolgere questa professione.

Il problema è il rapporto Chiesa-media, senza ombra di dubbio in equilibrio precario su di un filo di lana. Spesso l’opinione pubblica cattolica aggredisce letteralmente giornalisti ed esponenti del mondo dello spettacolo con idee difformi dalle proprie, come se non avessero una spiritualità e fossero tutti quanti degli aridi atei, peccatori e materialisti.

Possiamo portare vari esempi a dimostrazione. La simpaticissima imitazione di Benedetto XVI fatta da Maurizio Crozza su La7, risalente ormai a qualche anno fa, è stata duramente attaccata dagli ambienti vicini al Pontefice e dagli esponenti politici del mondo cattolico. Stessa sorte per il “Decameron” di Daniele Luttazzi qualche tempo dopo, addirittura cancellato dalla programmazione.

In politica estera, invece, dopo la discutibile dichiarazione di Ratzinger sulla contraccezione come male che “snaturerebbe il senso dell’unione” - per di più esternata in Africa, dove l’AIDS è una piaga sociale che miete un numero spropositato di vittime ogni anno - e le critiche ricevute all’unanimità da fonti più disparate, l’entourage del Papa si permise addirittura di attaccare il governo belga, colpevole di aver criticato i discorsi del Pontefice.

La realtà è che la massima istituzione ecclesiastica è oggi un moloch intoccabile, uno dei pochi nell’ambito dell’informazione italiana ed europea, forse secondo soltanto a quello rappresentato dalla comunità ebraica.

Quest’altro aspetto meriterebbe una trattazione a parte, per dimostrare che in Italia c’è sì libertà d’informazione, ma è una libertà condizionata. Provate ad aggettivare in maniera critica lo Stato di Israele, o anche soltanto lodare un singolo aspetto - vanno bene pure il clima o la gastronomia - di qualsiasi Stato ritenuto ostile e preparatevi ad un’autentica pioggia di invettive ed accuse di antisemitismo e nazismo da parte dei più accaniti esponenti dei vari consessi ebraici italiani. Qualsiasi riferimento, anche il più casuale ed indiretto, provocherebbe una reazione che sarebbe addirittura eufemistico e riduttivo definire spropositata. E per fortuna siamo in democrazia.

Le derive estremiste e radicali, in ogni campo, dalla politica alla religione, passando per l’economia e l’informazione, non portano a nulla di buono, soltanto alla creazione di barriere e divisioni tra gli uomini. Se non c’è dialogo, se non c’è rispetto per l’opinione altrui - e Voltaire ai giorni nostri si rivolterebbe nella tomba di 360 gradi, quasi come un kebab sul girarrosto - se non c’è libertà di informazione e di pensiero, non può esistere la convivenza serena fra i vari popoli che abitano il nostro pianeta.

Alessio Lannutti