mercoledì 12 maggio 2010

Lippi svela i 30 preconvocati al Mondiale


Nessuna sorpresa nella lista dei trenta preconvocati al mondiale in Sudafrica. La lista diramata dal Ct della nazionale Marcello Lippi è da ritenersi vincolante, a meno di infortuni dell’ultimo minuto. Non ci sono Totti, Cassano e Balotelli né tantomeno Amauri e Miccoli di cui tanto si era parlato negli ultimi mesi. Unica sorpresa in tono minore: fuori Legrottaglie e dentro il giovane del Villareal Giuseppe Rossi. Per difendere il titolo mondiale conquistato nel 2006 Lippi, allora ci proverà con l’astro nascente del calcio italiano, omonimo di quel Paolo Rossi che tanto fece sognare gli italiani nel 1982. Questa la lista dei preconvocati-.

Portieri: Buffon, De Sanctis, Marchetti, Sirigu. Difensori: Bocchetti, Bonucci, Cannavaro, Cassani, Chiellini, Criscito, Grosso, Maggio, Zambrotta. Centrocampisti: Camoranesi, Candreva, Cossu, De Rossi, Gattuso, Marchisio, Montolivo, Palombo, Pepe, Pirlo. Attaccanti: Borriello, Di Natale, Gilardino, Iaquinta, Pazzini, Quagliarella, Rossi.

Da questi trenta nomi, il 18 maggio, il Ct Marcello Lippi sceglierà la lista definitiva dei 23 convocati più quattro riserve. Consegna della lista ufficiale il primo giugno alla Fifa. Sono sette i tagli da effettuare. Particolarmente interessante la dichiarazione del presidente della Figc Giancarlo Abete sul futuro commissario tecnico della nazionale.

"Cesare Prandelli è un tecnico che mi piace. Ho sempre detto che è molto preparato. Ma come lui ce ne sono altri". Abete ha poi ribadito l'apprezzamento per l'allenatore della Fiorentina: "Prandelli mi piace, ma come lui anche altri. Mi viene in mente Ancelotti, che ha dimostrato le sue qualità con la vittoria della Premier sulla panchina del Chelsea". Il presidente federale ha poi detto che prima della partenza per il Sudafrica si scioglierà “ogni nodo sull'assetto tecnico dell'Italia fermo restando che se Lippi dovesse decidere di prolungare il proprio rapporto con la Federazione sarebbe in cima alle nostre priorità".

Luigi Brindisi

lunedì 22 marzo 2010

Blocco Studentesco: tra obiettivi e fatti un abisso


Si parla tanto delle nuove strategie elaborate dal “Blocco Studentesco”, finalizzate al miglioramento della qualità della vita degli studenti universitari e delle scuole superiori.
Elemento centrale nel programma del “Blocco Studentesco” è la contrarietà a qualsiasi proposta che permetta la trasformazione delle università italiane in fondazioni di diritto privato. “Questa trasformazione non sembra altro che una giustificazione dei tagli effettuati dal Governo” - si legge nel programma dell’associazione - “funzionali ad una futura privatizzazione dell’intero sistema universitario”. E’ perfettamente condivisibile pertanto una preoccupazione in particolare: si corre il rischio di penalizzare Facoltà che non suscitano un particolare interesse economico, come ad esempio la Facoltà di Lettere Classiche, che non rappresenta un business, ma esclusivamente una parte della nostra cultura da preservare al di fuori di ogni speculazione.

Non di minor valore è l’obiettivo numero 7 del programma del “Blocco Studentesco”, denominato “Progetto Fratello Sole” e finalizzato allo sviluppo dell’energia solare. Questa iniziativa rappresenta una vera e propria novità nel nostro paese, che inizia oggi ad assumere consistenza grazie ai finanziamenti europei. Il progetto prevede, tra le altre cose, la realizzazione di opuscoli informativi da distribuire nelle facoltà e la creazione di un manifesto firmato dal Senato Accademico per una maggiore sensibilizzazione su queste tematiche, ricordando che le Università godono, oltre ai normali finanziamenti, di un ulteriore incentivo del 5% per l’installazione di pannelli fotovoltaici.

Tutto condivisibile - sembrano proposte uscite dal “Libro Cuore” - se non fosse che l’attività concreta dei partecipanti al “Blocco Studentesco” non sempre viene esplicata in una sfera di piena legittimità. Prima di tutto, crea molte preoccupazioni il legame esistente con “Casa Pound Italia”, evidenziato dall’organizzazione stessa. “Blocco Studentesco” è infatti il movimento giovanile di “Casa Pound Italia”, associazione che oltre ad elaborare programmi teorici come quelli del “Mutuo Sociale”, dal 2003 è attiva nell’organizzazione delle occupazioni di appartamenti. Azioni discutibili dal punto di vista legale o meglio, senza inutili giri di parole, del tutto illegali.
Inoltre, in passato, sono sorte polemiche a causa del coinvolgimento di alcuni studenti appartenenti al “Blocco Studentesco” in azioni aggressive, come quelle verificatesi nell’ottobre del 2008 a Piazza Navona durante un corteo di protesta contro il decreto Gelmini e la riforma della scuola.

Sicuramente, molti studenti potranno trarre dalla propria esperienza una valutazione più diretta dell’operato del “Blocco Studentesco”. Io stesso sono stato testimone di due episodi: in occasione delle elezioni della Consulta Provinciale del Lazio, mi candidai nel mio liceo con una lista autonoma, contrapponendomi ad una mia coetanea iscritta al “Blocco”. A causa della mia discesa in campo dell’ultimo momento, l’atmosfera nella scuola si riscaldò significativamente. Quando si accorsero che avevo qualche chance di vittoria, tre studenti del Blocco Studentesco, molto più grandi di me ed estranei alla scuola, mi avvicinarono dicendomi senza molte perifrasi che sarebbe stato meglio se mi fossi ritirato dalla competizione. In quella circostanza fecero molta attenzione che non ci fossero testimoni e mi circondarono minacciosamente. Non mi ritirai, ma l’episodio mi diede la consapevolezza dell’ampia diffusione del ricorso alla violenza ed all’intimidazione tra i giovani, anche in occasioni in cui il vero senso della competizione si manifesta semplicemente in un confronto democratico di progetti ed idee in favore della scuola.

Vorrei raccontare anche un altro episodio, non meno significativo. Si tratta di una storia che mi è stata raccontata dallo stesso protagonista, un ragazzo di 17 anni appartenente al “Blocco Studentesco”, venuto a conoscenza del fatto che alcuni ragazzi di un liceo lo apostrofavano alle spalle come un individuo che si comportava in maniera violenta, arrivando anche a minacciare con armi i suoi interlocutori, in particolare quando si trovava in difficoltà in una conversazione. Lui stesso mi disse che per vendicarsi delle accuse, ed al fine di dimostrare che erano false, si scagliò contro i ragazzi che lo accusavano di comportamento violento, provocando loro delle lesioni. Si può solo dire che è stato coerente con se stesso.

Ovviamente, questi sono soltanto due esempi ed esisteranno tanti giovani aderenti al “Blocco” con i quali è possibile dialogare democraticamente. Appare tuttavia indubbio un approccio di fondo, proprio di alcuni membri del movimento, non esattamente apostrofabile come sereno e pacifico.

Francesco De Ficchy

mercoledì 3 febbraio 2010

Frank Serpico, un eroe dimenticato


“Through my appearance here today... I hope that police officers in the future will not experience the same frustration and anxiety that I was subjected to for the past five years at the hands of my superiors because of my attempt to report corruption... We create an atmosphere in which the honest officer fears the dishonest officer, and not the other way around... The problem is that the atmosphere does not yet exist in which honest police officers can act without fear of ridicule or reprisal from fellow officers”. (Frank Serpico)

“Attraverso la mia presenza qui oggi... Spero che gli agenti di polizia in futuro non debbano più provare la stessa frustrazione e la stessa ansia che ho dovuto sopportare negli ultimi cinque anni per mano dei miei superiori a causa del mio tentativo di segnalare la corruzione... Si crea un'atmosfera in cui l’agente onesto teme quello disonesto, e non viceversa... Il problema è che non esiste ancora un’atmosfera in cui gli agenti di polizia onesti possano agire senza paura della derisione o della rappresaglia dei colleghi”. (Frank Serpico)

Frank Serpico. Questo nome farà certamente drizzare le orecchie a numerosi lettori, specialmente - e non me ne vogliano - a quelli più avanti con gli anni. In molti conoscono le sue vicende, per alcuni il detective di New York è addirittura una leggenda. Gli storici potrebbero etichettarlo come un personaggio minore della storia americana del ‘900. Un uomo le cui gesta, immortalate in qualche film hollywoodiano ed in mediocri fiction di serie B, sarebbero insignificanti rispetto alla grandezza degli eventi che hanno caratterizzato la storia dell’umanità.
Forse coglierebbero pure nel segno, ma non potrebbero mai trovarmi d’accordo. Anche se l’uomo è piccolo, l’ideale che incarna è troppo forte per cadere nell’oblio ed inevitabilmente si trova a rimanere fuori dalle barriere del tempo e dello spazio. Racconterò in breve la sua incredibile storia.

A cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ‘70 l’agente Frank Serpico, figlio di immigrati italiani negli USA, ha avuto il coraggio ed il merito di scoperchiare la pentola della corruzione, diffusa ed irradiata capillarmente negli ambienti della polizia newyorchese, lottando contro tutto e tutti. La sua missione lo portò a scontrarsi, in un ambiente omertoso ed ostile, contro i muri di gomma eretti dalle principali istituzioni, insofferenti di fronte alle reiterate denunce del poliziotto italoamericano.
Soltanto il mondo del giornalismo, probabilmente per mera convenienza, diede credito alla denuncia e rese pubblico lo scandalo. Frank arrivò persino a rischiare la propria vita, quando, nel 1971, fu colpito alla testa da un colpo di pistola durante un’operazione di polizia. Gli agenti che erano con lui - che probabilmente l’avrebbero voluto morto, come gran parte dei membri della polizia di New York - non chiamarono tempestivamente i soccorsi. Ma l’agente Serpico sopravvisse e dopo un periodo di convalescenza si presentò presso la commissione Knapp - istituita ufficialmente allo scopo di punire i colpevoli, ma de facto con la finalità di tranquillizzare l’opinione pubblica - testimoniando la sua vicenda. Qualche tempo dopo, avvilito ed in serio pericolo per una possibile vendetta, lasciò gli Stati Uniti per la Svizzera, dove visse alcuni anni grazie ai proventi del film sulla sua storia (diretto da Sidney Lumet ed interpretato magistralmente da Al Pacino).

Serpico è un eroe. Ma come capita spesso agli eroi dei nostri tempi, alla fugace gloria ed alle celebrazioni del momento - figlie anch'esse della società e del sistema mediatico dell'epoca contemporanea - segue un inevitabile declino. Attenzione, però. Sarebbe inappropriato e semplicistico definire Serpico come un personaggio decaduto, da rimembrare soltanto per la fama mediatica. A fortiori, considerando il deficit di valori della nostra cara, vecchia società. Nulla cambia, se non sono gli uomini a volerlo.

Serpico ha sacrificato i propri affetti, l’amato lavoro, mettendo a repentaglio persino la sua stessa vita. Il tutto, per un unico ideale di giustizia. L'ostinata ricerca della verità lo ha portato all'alienazione, a dover lasciare il suo paese ed il lavoro che tanto amava. Dall’ipocrisia delle cerimonie pubbliche all’abbandono più totale. Ai più era scomodo, troppi lo avevano inviso.
Oggi vive con la sua compagna, da vero e proprio eremita, in una baracca costruita nella foresta a nord dello stato di New York. L’agente “mastino” non ha perso l’amore per la giustizia e la verità. Non ha smesso mai di crederci. Dal suo piccolo eremo, mantiene i contatti con la civiltà attraverso un blog, dove denuncia quasi quotidianamente le violenze e le ingiustizie dell’America.
C’è chi lo definirebbe un anticonformista, un patetico sognatore, uno svitato. Ce ne fossero altri di svitati come lui, oggi vivremmo in un mondo migliore.

Alessio Lannutti

giovedì 19 novembre 2009

Il Cuore di Farfalla dentro ognuno di noi: anche delle persone diversamente abili


Ivana Botticelli è una giovane autrice di Benevento, amante della scrittura e del mondo di internet. Dalla nascita è affetta da una grave disabilità e con la sua grande forza d'animo si batte per i diritti e una migliore vivibilità sociale delle persone disabili. Nel 2005 esordisce con una prima edizione del suo libro “Cuore di Farfalla”, poi rivista e arricchita di una raccolta di poesie, affiancata da un cortometraggio del giovane regista Lorenzo D'Amelio. Ivana si definisce una donna volutamente “provocante e piena di sentimenti” che cerca di raccontare nel suo libro perché le emozioni non hanno e non fanno differenze e si muovono liberamente, al di là delle difficoltà corporee. Nella sua intervista Ivana Botticelli ha cercato di raccontare le sue esperienze di vita, i suoi ostacoli quotidiani e la sua voglia di vita libera come una farfalla.


Solitamente nell'immaginario collettivo quando si parla di farfalle si pensa alle ali, perché hai scelto il cuore di una farfalla per il titolo del tuo libro?

Premetto che io adoro le farfalle, perché mi danno un senso di libertà, e di bellezza. È pur vero che la loro vita non dura altro che ventiquattro ore, e penso che in queste poche ore esse possono raggiungere quella felicità che noi rincorriamo nel corso della nostra lunga vita, e che forse non raggiungeremo mai. A parte questo motivo che mi ha spinto a scegliere questo titolo, c’è n’è anche un altro. Ascoltando una canzone per me bellissima di Michele Zarrillo “L’elefante e la farfalla” in quel testo mi sono rispecchiata, ed ho visto in quelle parole ciò che proviamo noi, diversamente abili, in questa società basata solo sull’apparire, non guardando nei nostri cuori. Questa canzone parla di un elefante che si innamora di una farfalla, ma lei non ricambia il suo amore perché si sente bella e non vuole sprecare il suo tempo con un elefante essendo lui grosso e pesante da seguirla, e in una parte del testo l’elefante dice alla sua amata farfalla: “dentro di me ho un cuore di farfalla e non potrai vedere mai quanto lui ti somiglia.” Se riflettete è davvero così, perché noi persone con handicap abbiamo voglia di vivere come gli altri, amori, amicizie, lavoro etc etc. ma la società è un po’ come quella farfalla, si avvicina a noi “elefanti” ma quando abbiamo bisogno di lei, lei vola via spezzandoci il cuore.

Se dovessi citare tre aspetti del tuo libro per invogliare il lettore alla lettura, cosa metteresti in evidenza?

È un piccolo “diario” con parole semplici e scorrevoli, di una donna che non vuole vivere passivamente le sue giornate, che vuole affermarsi con le sue idee, i suoi sogni, anche se è difficile riuscirci, ma ci vuole provare, è un libro vero senza tabù. E' stato anche oggetto di vari incontri con molti giovani di scuole medie e superiori della mia città e provincia (Benevento) e la cosa che mi ha colpito è stata che ragazzini delle scuole medie sono più sensibili ed interessati di tante persone adulte che dicono di sapere o fare. Quindi c’è speranza nella prossima generazione affinché scompaiano per sempre questi pregiudizi. Forse è solo una speranza, un’utopia ma se non abbiamo neanche questa piccola luce a cosa serve vivere!? Un altro aspetto che potrei citare, è quello di mia madre, una donna che potrei definire MADRE CORAGGIO! Che non si è mai abbattuta pur avendo avuto una vita dura, una giovane vedovanza e tre figli da allevare tra cui me con i miei mille problemi, ma mi ha dato tanto coraggio, tanto amore, mi ha sempre trattata da persona “normodotata” , è vero, mi ha anche un po’ viziata, ma quale mamma non vizia i propri figli? Soprattutto se sono ultimogeniti. Però quando era necessario mi sgridava anche. Vi sto un po’ raccontando di mia madre per farvi capire che non si è mai vergognata di avere una figlia “diversa”, e se oggi sono di mentalità libera lo devo a lei. Vorrei gridare un GRAZIE MAMMA ovunque essa sia! Ma non solo per avermi dato tutto il suo amore ma anche per avermi regalato una sorella fantastica che ha proseguito il suo cammino dandomi il suo stesso calore da quando è andata via.

Il giovane regista Lorenzo D'Amelio ha tratto dal tuo romanzo un cortometraggio. Credi che il mondo della cultura e dell'informazione trattino in modo adeguato il tema della disabilità o bisogna fare di più?

Eravamo intenzionati a fare la seconda edizione di “Cuore di farfalla” visto il successo della prima, in questa nuova edizione ho aggiunto una raccolta di poesie fatte nel corso della mia vita, io le definisco piccoli pensieri, frammenti di vita. Volevamo creare oltre alla scrittura qualcosa che desse immagini a quelle parole stampate, ma non sapevamo cosa e come fare, ne parlai con un amico che si occupa di grafica. All’inizio pensò di fare lui qualcosa di carino, ad esempio un video con mie immagini, ma poi ebbe la grandiosa idea di presentarmi Lorenzo. Lorenzo ed io insieme ad altre persone parlammo per diverse settimane per metterci d’accordo su cosa e come si volesse realizzare un progetto che desse davvero il giusto sapore a ciò che volevamo far uscire fuori. Fu davvero una sorpresa per tutti noi nel vedere il suo operato, ha saputo creare un cortometraggio che non sa di pietismo ma allo stesso tempo emoziona, ed è riuscito a capire cosa io volessi mandare alla gente con semplicità e sensibilità che hanno solo poche persone e lui è uno di quei pochi. Ma ahimè non è stato possibile commercializzare per mancanza di denaro, ma noi lo stiamo pubblicizzando in varie manifestazioni, o convegni sociali, o festival di cortometraggi. Come dico sempre quando vado a dei convegni nella mia zona, i media non parlano abbastanza del mondo della disabilità, o se se ne parla si parla in modo sbagliato, come se noi fossimo cittadini di serie b o addirittura di serie c, e mi riferisco alla categoria delle persone con handicap più o meno gravi come la mia patologia “tetraparesi spastica”. Molti pensano che questo tipo di patologia sia uguale per tutti i soggetti colpiti, ma si sbagliano, per questo c’è bisogno di più cultura di più spazi in tv, alla radio, sui giornali, film, ma dovrebbero essere curato nei minimi particolari, e non farne un commercio per far commuovere i cittadini, ma come una vera cultura.

Tu ti sei spesso battuta affinché i disabili possano vivere a pieno “una vita normale”. Cosa c'è da fare a livello delle istituzioni ed a livello sociale per far si che ciò avvenga?

Dunque io nel mio piccolo cerco di far sentire la mia voce scrivendo di tanto in tanto articoli su di un quotidiano della mia zona. Molte volte vengo anche demoralizzata da alcune persone e dai miei stessi compagni di sventura, perché dicono che tanto non serve a nulla farmi sentire, perché noi siamo e resteremo sempre cittadini di classe inferiore, e che dobbiamo essere grati a chi ci ama etc. etc. In parte le loro parole non sono del tutto sbagliate perché come ho già detto prima la società per noi fa pochissimo, ma se nessuno di noi si fa sentire come può la gente conoscere il nostro mondo!? Penso di essere una piccola goccia nel mare della vita, ma anche una goccia aumenta il mare e lo rende ancora più bello. A livello istituzionale e sociale ci sarebbe moltissimo da fare, soprattutto nel sud. Una cosa tra le tante è abbattere le barriere architettoniche, perché il sud ha dei posti meravigliosi da visitare, ma per chi è in carrozzella è molto complicato arrivarci, e non mi sembra giusto privarsi di tante meraviglie, o andando in qualche pub per chi ha la fortuna di avere amici, e trovarsi o con davanti dei gradini o con dei bagni non adatti alle nostre esigenze, oppure per andare nei negozi, essi sono troppo piccoli e se magari ci si riesce ad entrare gli altri non possono passare. Se non ci fossero i centri commerciali come avremmo fatto ad andare a fare le nostre spese?! Per non parlare poi degli uffici pubblici. Ma penso sempre una cosa: se prima non si abbattono le barriere mentali non potranno mai abbattere tutte le altre.

Francesca Ragno

mercoledì 18 novembre 2009

Il grande silenzio di chi? Degli intellettuali


Il 28 ottobre scorso il noto intellettuale e docente universitario Alberto Asor Rosa è stato ospite dell'iniziativa organizzata dall'associazione Eureka e il circolo culturale Enrico Berlinguer presso la suggestiva sala conferenze del museo civico di Albano Laziale per presentare il suo ultimo lavoro, il libro-intervista “Il Grande Silenzio”.

Un lungo colloquio raccolto dalla giornalista di Repubblica Simonetta Fiori che fa il punto della situazione sul ruolo degli intellettuali partendo dall'Ottocento fino ai giorni nostri, che si snoda in un percorso che vede due protagonisti, l'intervistato e l'intervistatore, attraverso una serie di domande creando non un semplice saggio, ma un intreccio di riflessioni e di vita vissuta. L'aspetto centrale del libro appare il modo in cui il prof. Asor Rosa riflette sul tema degli intellettuali e il suo vivere la questione analizzandola e raccontandola in modo pratico di come il suo essere intellettuale si sia intrecciato con la storia italiana degli ultimi cinquanta anni.

“La storia degli intellettuali italiani ha avuto un grande valore molto prima dell'Unità Nazionale, sono stati capaci di cementificare il sentimento unitario del Paese – esordisce così Asor Rosa per dare l'avvio alla presentazione del suo libro – e dopo la prima infanzia dello stato essi sono stati capaci di fare un lavoro di supplenza ed integrazione al lavoro dei politici.”

Negli ultimi venti anni si è assistito, invece, ad un allentamento del rapporto tra classe intellettuale e politica fino a portare a quello che il titolo del libro individua il grande silenzio della cultura italiana. C'è da chiedersi perché? Ci sono le responsabilità dei politici e del mondo della cultura ha spiegato Asor Rosa. “Si è verificata una settorializzazione della ricerca intellettuale che ha rinunciato a presentarsi come protagonista dei cambiamenti politici ed istituzionali. Dall'altro lato il ceto politico è diventato sempre più autoreferenziale, più intento a risolvere i problemi del Paese nella sua cerchia di ceto politico”
“Questo per due ragioni di motivazioni. – continua Alberto Asor Rosa – L'intreccio fra politica e cultura era favorito dalle grandi ideologie portatrici di grandi idee generali, mentre ora la politica ha un orizzonte molto ravvicinato. Inoltre in un modo globalizzato le categorie intellettuali sono trascese con un'assenza di opzioni culturali nell'orizzonte quotidiano”.

Alla domanda del pubblico chi è l'intellettuale, la risposta è stata diversa a seconda del periodo storico: “ Il lavoro intellettuale ha avuto un forte sviluppo con due fenomeni storici, il secolo dei lumi e la rivoluzioni industriale, era una vera e propria classe sociale capace di parlare di tutto, invece ora l'intellettuale è un grande specialista che proietta le sue conoscenze sul piano sociale, come Max Weber e Norberto Bobbio”.

Ora nel legame tra politica e cultura si è innestata anche la crisi della democrazia italiana in cui le forze politiche non sono riuscite a dare risposta alla tradizione e ai rapporti istituzionali e anche il dato di fatto che ci sono strumenti di espressione limitati per gli intellettuali su tutti i mezzi di comunicazione dove il circuito informativo della cultura è molto stretto.

Cosa fare allora per gli intellettuali per non cedere alla tentazione del “grande silenzio”? Asor Rosa apre con l'ultima questione da parte del pubblico in sala altri spunti di riflessione: “ L'opinione pubblica e la sua parte intellettuale non può cedere alla tentazione e deve reagire attraverso una resistenza positiva. Se non si trova più spazio per gli intellettuali singoli bisogna rafforzare gli intellettuali collettivi come la scuola e l'università. Specialmente la scuola rappresenta l'unico tessuto istituzionale in permangono alcune categorie positive (l'identità nazionale, la tradizione e il rispetto delle istituzioni). Bisogna mantenere attivo il circuito tra politica, cultura, intelligenza ed impegno mantenendo vive la scuola e l'università.”

Certamente degli intellettuali ha bisogno la politica nostrana per recuperare il suo spessore, forse lo chiede la politica stessa che escano dal loro “grande silenzio” e tornino a parlare e dire la loro. Staremo a vedere se i due mondi della politica e cultura torneranno di nuovo a prendere contatti e corteggiarsi a vicenda.

Francesca Ragno

domenica 15 novembre 2009

Cesare Battisti accusa il governo: “Mi vogliono in Italia come trofeo”


Momenti decisivi per le sorti dell'ex militante dei PAC (Proletari Armati per il Comunismo), in attesa della decisione sulla richiesta d'estradizione formulata dal governo Berlusconi che sarà a breve discussa dalla Corte Suprema Federale del Brasile, paese dove Battisti è attualmente accolto come rifugiato politico. Battisti è ritenuto colpevole di 4 omicidi tra il 1978 e il 1979: in tre di essi è statoi riconosciuto concorrente nell’esecuzione, e condannato all’ergastolo con sentenze passate in giudicato.

Ciò che sta scuotendo l'opinione degli scettici è capire fin dove lo status di rifugiato politico possa arrivare a rendere immune un individuo, discussione al limite tra il sempre più sottile confine tra giurisprudenza e politica. Secondo la definizione di "Wikipedia", è rifugiato politico chi è fuggito o è stato espulso a causa di discriminazioni politiche, religiose o razziali dal proprio Paese, e che di conseguenza è accolto come rifugiato in un paese straniero.

Cesare Battisti è stato condannato per l'uccisione di un macellaio nel corso di una rapina, reato che non rientra nello spettro di indennità di cui un rifugiato politico gode. La sentenza, peraltro, non è esente da dubbi, poichè resta presente l'ipotesi di un compromesso tra gli altri imputati: Battisti è stato condannato in contumacia attraverso la testimonianza accusatoria dei due ex militanti pentiti, che hanno in tal modo ottenuto una sensibile riduzione della pena, solo 15 anni rispetto all'ergastolo del compagno fuggito.

E' quindi giusto che gli sia concesso un rifiuto per la richiesta di estradizione? La mia personale opinione è che questa richiesta sia una falsa rivendicazione di giustizia mascherata con fin troppo evidenti motivazioni politiche da parte del governo Berlusconi, alla costante ricerca di facili clamori per esaltarsi di fronte al cieco elettorato.

La discussione andrebbe invece affrontata con occhi diversi, apolitici, cercando di capire se una scelta di azione politica possa arrivare ad esser considerata tanto importante da porre in secondo piano la vita di un essere umano. Le vittime degli omicidi di cui Battisti è accusato (come omicida e come concorrente) hanno una famiglia che li rimpiange e che è in attesa di giustizia. E' questo il corretto spirito con cui affrontare la vicenda, e non, come lo stesso Battisti ha dichiarato, quello di cercare un misero "trofeo" politico con cui gonfiare dibattiti televisivi e la prossima propaganda elettorale, aggiungo io.

Non bisogna giudicare il Battisti politico, ma la sua azione, che anche se portata avanti secondo motivazioni profonde e che vanno al di là del crudo gesto criminale, in un paese civile non può esser perdonata.

P.S.
Quando politica e giurisdizione si confondono, muore la democrazia. Sarebbe bene che alcuni politici in primis, lo ricordassero più spesso.

P.P.S.
Quest'articolo non vuole giudicare il Battisti uomo e pensatore, politico e intellettuale (autore di scritti e riflessioni apprezzate con ampio seguito anche all'estero), ma quella che è una oggettiva richiesta di estradizione per crimini commessi, indipendentemente dal fine che li ha motivati.

Marco Montoro

domenica 1 novembre 2009

Uccisi dallo Stato


La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte. (Art. 27 Costituzione italiana)

In Italia, in pieno XXI secolo, è ancora possibile morire per mano dello Stato. Sembra assurdo, a tratti paradossale, ma è così. Circostanze diverse, esiti assurdamente analoghi. Stefano Cucchi era un ragazzo come tanti. Come Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Stefano Sandri e molti altri. Non troverete le loro storie sulle copertine di quotidiani e riviste patinate, dedicate ormai quasi esclusivamente al gossip ed alle diatribe tra gli opposti schieramenti politici. Simili tragedie sembrano interessare soltanto relativamente i mass media, preoccupati di propinare al “popolino” la solita solfa, reiterata ciclicamente fino alla nausea. Finché una notizia vende, viene pubblicata, una volta scemato l’interesse, non se ne parla più. Tali vicende sarebbero irrimediabilmente destinate ad inabissarsi nel mare dell’oblio, se non vi fosse, a tenerle miracolosamente a galla, la sete di verità, di giustizia e l’indignazione delle famiglie delle vittime e di molti italiani per bene.

Stefano era stato fermato a Roma, nel Parco degli Acquedotti, nella notte tra il 15 ed il 16 ottobre perché trovato in possesso di una modica quantità di stupefacenti. Secondo la testimonianza dei familiari, si trovava in piena salute al momento dell’arresto. Stefano muore il 22 ottobre nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, senza che in precedenza fosse stata data la possibilità ai familiari di incontrarlo. Il suo volto è tumefatto, sfigurato. Il corpo presenta evidenti lesioni. Secondo le dichiarazioni delle autorità il giovane sarebbe caduto dalle scale. Tale ipotesi appare però alquanto improbabile agli occhi dei parenti del ragazzo dopo aver visionato le fotografie della salma, scattate in seguito ai rilievi autoptici di rito.

E’ innegabile che chi commetta sbagli, durante il proprio percorso di vita, debba pagare. E’ però altrettanto indubbio che i detenuti, qualsiasi crimine essi abbiano commesso, debbano essere tutelati e rispettati nella propria dignità. Sono anche loro esseri umani, non bisogna mai dimenticarlo. Proprio per queste ragioni è inconcepibile che un ragazzo come tanti, per un reato tutto sommato “veniale”, debba perdere la propria vita. Non è giustizia, è mera barbarie.

Se ciò accade, e si ripete periodicamente nel tempo, in Italia c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Antitesi nell’estate 2009 è riuscita ad entrare nelle carceri italiane riscontrando una situazione, nell’emergenza sovraffollamento, tutto sommato umanamente tollerabile. Tuttavia è innegabile che il sistema carcerario italiano presenti numerose lacune e necessiti di importanti cambiamenti per divenire realmente “rieducativo”.

Lo scandalo della giustizia "lumaca", con i magistrati oberati da carichi di lavoro sovraumani, ne è esempio lampante. Così, mentre mafiosi e camorristi restano impuniti per il mancato deposito delle motivazioni delle sentenze entro i termini previsti dalla legge, troppi giovani si sono trovati a pagare a caro prezzo, spesso con la vita, piccoli errori dei quali la nostra società e noi tutti - nessuno escluso - siamo direttamente o indirettamente responsabili. Nell’amara consapevolezza che quello che è accaduto a questi ragazzi poteva e può tuttora capitare ai nostri conoscenti, ai nostri cari, forse addirittura a noi stessi.

Questo articolo non vuole assolutamente essere un atto di accusa contro lo Stato e - in particolare - contro le Forze dell’ordine italiane, che rischiano ogni giorno la vita per garantire la nostra sicurezza e la possibilità di vivere in un paese il più possibile libero e democratico. Dare un senso a queste morti diventa un obbligo morale per tutti gli operatori dell’informazione, a prescindere dalle opinioni politiche personali. I cittadini onesti e rispettosi della democrazia, certamente la grande maggioranza degli italiani, devono sapere. Chi scrive oggi su queste pagine si sente assolutamente in dovere di mettere l’opinione pubblica a conoscenza dei fatti, per contribuire - nelle nostre limitate possibilità - affinché venga fatta giustizia. Perché fatti simili non si verifichino mai più nel nostro paese e perché i colpevoli vengano perseguiti a termini di legge.

Il dolore, il rimorso, la rabbia potrebbero portare persino a comprendere, se non addirittura giustificare, sentimenti di odio nei confronti delle Forze dell’ordine e delle Istituzioni in generale. Non bisogna assolutamente cadere in una simile tentazione. Bisogna avere fiducia nel proprio Paese e non fare superficialmente di tutta l’erba un fascio. Solo in questo modo potremo scoprire la verità e rendere degnamente giustizia alla memoria di Stefano e degli altri ragazzi, strappati troppo presto all’affetto dei propri cari.

Alessio Lannutti