domenica 27 marzo 2011
Signor Burns, le faremo sapere
I tragici eventi che hanno colpito il Giappone negli ultimi tempi rappresentano un importante spunto di riflessione per l’opinione pubblica in merito alle modalità di approvvigionamento energetico. La lotta - che con il passare dei giorni, purtroppo, sembra apparire sempre più infruttuosa - dei tecnici nucleari giapponesi ed internazionali per evitare una nuova Chernobyl nell’impianto di Fukushima ha risvegliato le coscienze ormai sopite dei cittadini italiani in tema di energia nucleare. Come è naturale e fisiologico a seguito di disastri di grande portata, per di più quando determinati da eventi umanamente incontrollabili come le catastrofi naturali, gli atteggiamenti critici e la disillusione prendono il sopravvento: il fronte degli antinuclearisti, dei contrari e degli scettici vede allargare di giorno in giorno le proprie file.
Nonostante tutto, vi è ancora chi ritiene che quello di Fukushima sia un formidabile spot a favore del nucleare: una centrale, per di più costruita all’inizio degli anni ’70, avrebbe resistito alla forza di madre natura e soltanto l’incredibile impeto dell’onda anomala generata dalla scossa sismica sarebbe riuscito a scalfirne la struttura.
Il problema, però, sembrerebbe essere a monte. Sebbene un terremoto di magnitudo 8.9 della scala Richter ed il conseguente tsunami possano mettere in discussione qualsiasi opera dell’uomo, appare abbastanza assurdo gioire per quella che è manifestamente una tragedia destinata a rimettere in discussione le convinzioni dei sostenitori più accaniti dell’energia atomica.
Qualsiasi struttura creata dall’uomo, se colpita da eventi imprevedibili, è destinata a collassare. Anche una pala eolica, in seguito ad un terremoto, può cadere giù e provocare dei danni. Tuttavia, non stiamo discutendo su questo, il problema concerne l’entità dei danni causati all’ambiente circostante. La radioattività conseguente all’incidente di Chernobyl, a distanza di 25 anni, continua a rendere inabitabili ed inadatte a qualsiasi attività umana vaste aree circostanti al luogo del disastro. Con la centrale di Fukushima accadrà la stessa cosa.
Sebbene storicamente in Italia le discussioni in tema di energia atomica prendano le mosse da valutazioni politiche della questione, diviene assolutamente imprescindibile la necessità di porsi alcune domande.
E’ davvero quello attuale il momento più idoneo per intraprendere un dibattito sul nucleare nel nostro paese, soprattutto alla luce dell’impressionabilità della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica? L’analisi del fenomeno deve basarsi sull’osservazione di dati certi ed inconfutabili che possano dare un’ampia visione delle problematiche legate alle centrali nucleari, nel nostro paese e nel mondo.
Nello specifico, bisogna prendere le mosse dalla considerazione di due diversi fattori: quello della convenienza economica e quello rivestito dalle effettive garanzie in termini di sicurezza proprie di questa fonte di energia.
Come molti sanno, una volta avviato, un reattore nucleare produce energia ininterrottamente per un lungo periodo di tempo, a prescindere dall’effettivo fabbisogno energetico della porzione di territorio che la centrale è chiamata a coprire. Il fatto stesso che le centrali operino o meno a pieno regime è del tutto ininfluente, nelle ore di minore richiesta parte dell’energia viene necessariamente sprecata.
La Francia ha 59 reattori nucleari distribuiti su 19 centrali, poco più della metà dei reattori presenti su un territorio incredibilmente più vasto, quello degli Stati Uniti. L’energia prodotta dalle centrali francesi nelle ore notturne, che andrebbe sprecata, viene venduta - ed a caro prezzo - allo Stato italiano. Il nostro paese dipende energeticamente dalle altre realtà europee. Con il nucleare questo assetto di interessi cambierebbe? In Italia non abbiamo uranio, dovremmo necessariamente acquistarlo da altri paesi. Nel settore energetico, quindi, rimarremmo comunque dipendenti economicamente dalle disponibilità altrui.
Per quanto riguarda la sicurezza, non c’è molto da dire. Chi afferma che l’energia nucleare è assolutamente sicura e pulita, mente sapendo di mentire. Un reattore nucleare è sicuro finché, dentro e fuori, tutto funziona come dovrebbe. In parole povere, fino a quando non entra in gioco la legge di Murphy. Sebbene i reattori di ultima generazione siano più sicuri dei precedenti (addirittura sicurissimi rispetto a quelli di progettazione sovietica coinvolti in inconvenienti durante la guerra fredda, ma anche di quelli americani, vedi incidente di Three Mile Island), malfunzionamenti, eventi esterni, catastrofi naturali sono sempre possibili. E se qualcuno obietterà che allora non bisognerebbe prendere l’aereo - statisticamente il mezzo di trasporto più sicuro esistente al giorno d’oggi - perché pur nella più assoluta improbabilità matematica di incidenti una minima possibilità che l’aeroplano cada c’è sempre, risponderei che le conseguenze di un incidente nucleare per la vita umana, animale, vegetale sarebbero un prezzo troppo alto da pagare. Poco importa il fatto che sconteremmo comunque in prima persona lo scotto di un eventuale incidente ad un reattore francese o tedesco, non è un motivo valido per diventare improvvisamente sostenitori del nucleare in Italia.
Non dimentichiamo poi le scorie prodotte dalle centrali. Che fine farebbero? Come vengono smaltite oggi? Che effetti hanno sugli ecosistemi del nostro pianeta? Quello delle scorie nucleari è un problema al quale in passato non si è pensato. Ed al quale, non senza dolo o colpa, si continua a non pensare.
Le soluzioni al problema energetico vanno contestualizzate. In Italia abbiamo sole, mare e vento in abbondanza. Cominciamo a puntare davvero sulle energie rinnovabili, sulle fonti pulite e sostenibili. Ma non a parole o con facili proclami, bisogna farlo veramente. Imporre ai costruttori di implementare impianti fotovoltaici negli edifici di nuova costruzione, dotare anche le costruzioni più vecchie di pannelli solari, ricorrere all’eolico, sfruttare onde, correnti, maree, evitare perdite nella rete elettrica, sensibilizzare sul risparmio energetico laddove possibile. In pratica, ottimizzare la politica energetica nel pieno rispetto dell’ambiente. Lo hanno fatto in Germania, di certo non abbiamo meno sole di quanto ne abbiano i tedeschi.
Gli italiani sono già stati chiamati ad esprimersi sull’energia nucleare nel 1987. A torto o a ragione, una decisione, in senso negativo, è stata presa. Ora, l’attuale governo italiano, dichiaratamente favorevole all’energia atomica, è intenzionato ad introdurre in un futuro non molto prossimo delle centrali nucleari sul nostro territorio. In seguito alle vicende giapponesi, per evitare che i sostenitori delle energie rinnovabili e gli antinuclearisti cavalcassero l’onda delle polemiche, ha deliberato una moratoria di un anno sullo sviluppo del nucleare. Ha deciso di prendere tempo. Tuttavia, ciò non fermerà il referendum del 12 e 13 giugno.
Nel cartone animato dei Simpson il signor Burns è il crudele proprietario della centrale nucleare di Springfield, che tiene sotto scacco della propaganda nuclearista l’intera cittadina. Al signor Burns - che nel nostro caso è rappresentato dalla lobby del nucleare - si può dire no.
Mettendo da parte inutili allarmismi, spesso fomentati dalla strenua ricerca del sensazionalismo da parte di alcuni operatori dell’informazione (es. “la Germania ha deciso di bloccare i suoi reattori nucleari”: sì, soltanto quelli più obsoleti, simili a quelli di Fukushima ed in via del tutto precauzionale; “la nube radioattiva giungerà in Italia, corsa all’acquisto dei contatori Geiger”: un modo come un altro per alimentare le psicosi; “la città di Roma è più radioattiva di Tokyo”: come se la radioattività naturale dovesse destare preoccupazione), è necessario aprire un dialogo serio tra cittadini ed istituzioni, valutare i pro ed i contro, prendere una decisione definitiva ed inappellabile.
Sul tema l’omertà di molti governi, di ogni area geografica e collocazione politica, ha dato adito a timori e riflessioni. E se è vero che in Italia le polemiche, allo stato attuale, non avrebbero ragion d’essere, non essendoci ancora centrali nucleari nel nostro paese (la prima, ammesso e non concesso che i prossimi governi non dovessero cambiare idea, vedrebbe la luce non prima del 2020), è altrettanto vero che un’informazione imparziale, seria, disinteressata dell’opinione pubblica è assolutamente prodromica ad una qualsiasi discussione in materia. Per farsi un’opinione è necessario porsi davanti a quella che è la realtà e non dinanzi a sterili propagande politiche.
Anni fa, al confine tra l’Italia e la Francia, proprio di fronte alla vecchia frontiera di Ponte San Ludovico, campeggiava un cartello in lingua francese, che recitava più o meno così: “Il 26 aprile 1986 la nube radioattiva di Chernobyl si fermò in questo punto”. Nessuno sa chi l’avesse messo. All’epoca della presidenza del popolarissimo Mitterand, si era ritenuto di dover minimizzare le conseguenze del fallout di Chernobyl sul territorio francese, di non mettere in guardia i cittadini dal consumo di frutta, verdura, latte, carne contaminati. Quella frase era un monito alla Francia, paese di nuclearisti convinti, ed al governo dell’epoca, disposto a mettere a repentaglio la salute dei propri cittadini per portare avanti una politica energetica ed i propri interessi economici. Da qualche tempo di quel vecchio cartello non c’è più traccia.
Alessio Lannutti
domenica 20 marzo 2011
Intervento militare in Libia: necessità imprescindibile o errore imperdonabile?
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato nelle scorse ore la Risoluzione 1973. L’atto è stato emanato allo scopo di istituire una no-fly zone sullo spazio aereo libico e di porre in essere tutte le misure necessarie a salvaguardare la popolazione locale dagli attacchi dell’esercito del colonnello Muhammar Gheddafi. In parole povere, al di fuori di inutili retoriche e sterili tecnicismi, l’ONU ha legittimato un intervento militare in Libia da parte della coalizione internazionale.
L’operazione - denominata Odissey Dawn (Odissea all’Alba) -, naturale conseguenza delle posizioni assunte negli ultimi tempi dal fronte degli interventisti, ha avuto il placet da parte della quasi totalità dei componenti della più importante organizzazione internazionale, non senza illustri eccezioni. Per di più, vede partecipare, con un ruolo di primo piano, anche altri paesi del mondo arabo, su tutti Marocco, Giordania, Qatar ed Emirati Arabi, presenti al summit di Parigi.
Se le Nazioni Unite hanno esternato una posizione forte, netta, definitiva, inappellabile, tra le altre organizzazioni intergovernative direttamente interessate dalle vicende libiche i pareri sono discordanti e serpeggia il malcontento. L’Unione Africana, che vede al suo interno molti sostenitori del raìs - “Gheddafi è un vero africano”, avevano affermato pochi giorni fa i maliani -, sembra manifestare un atteggiamento quantomeno equivoco, arrivando persino ad imbastire un estemporaneo tentativo di negoziazione con il colonnello. La Lega Araba, invece, che nei giorni scorsi si era dichiarata favorevole ad un intervento internazionale per far cessare la carneficina, ha improvvisamente cambiato idea. E’ stata sufficiente l’enorme mole di missili caduta su obiettivi libici nelle ultime 24 ore. Troppi per una semplice operazione di pace.
Il pomo della discordia è incarnato dalle modalità di azione della coalizione internazionale, anche perché si è passati dalla no-fly zone ai bombardamenti in un batter di ciglia. Comincia a balenare il sospetto che quella che avrebbe dovuto essere un’operazione di peace enforcing sotto l’egida dell’ONU nel paese nordafricano si stia rivelando una vera e propria guerra. “Si vis pacem, para bellum”, scriveva Vegezio. Ma è davvero giusto fare vittime, per creare condizioni di pace? Vedete, le chiamano operazioni di peace keeping, peace enforcing, ma spesso hanno il risultato diametralmente opposto a quello che si erano prefissate. Abbiamo già visto cosa hanno prodotto le missioni UNOSOM I e II delle Nazioni Unite e l’operazione Restore Hope in Somalia. Il fallimento della macchina internazionale ha inasprito il clima di anarchia e radicalizzato l’emergenza umanitaria nel paese. Fuor di metafora, sono state del tutto controproducenti.
In Libia, inutile dimenticarlo, è in atto una vera e propria guerra civile che vede da una parte il dittatore, che detiene il potere nel paese, e dall’altra i ribelli, entità eterogenea non meglio precisata, che si contrappongono al raìs. Le soluzioni, per chi governa, sono di due ordini: o si sceglie la strada intrapresa da Mubarak per l’analoga situazione avvenuta in Egitto, ovvero l’abbandono del paese e l’accoglimento delle istanze degli insorti, oppure quella intrapresa da Gheddafi, la linea dura della repressione. Magari qualcuno cadrà anche dalle nuvole, ma la Libia non ha mai rispettato i diritti umani, i propri cittadini, gli immigrati dei paesi centrafricani (trattati come schiavi) e le convenzioni internazionali. Non è una novità. Per questo motivo, ci devono essere altre ragioni a suffragare l’intervento militare. La guerra interna al paese, le violenze sui civili, le morti innocenti potrebbero essere soltanto un pretesto. Perché allora le Nazioni Unite dovrebbero autorizzare/incoraggiare interventi di analoga portata anche in molti paesi dell’Africa Subsahariana. Ma dove non ci sono risorse, si sa, è del tutto inutile sporcarsi le mani.
Allo stesso modo, per fare un altro esempio, Israele non rispetta i diritti umani del popolo palestinese e nemmeno quelli dei propri cittadini: si veda il caso degli Shministim (obiettori di coscienza), uno status ormai riconosciuto come legittimo e sacrosanto da tutte le democrazie occidentali e che viene invece punito dal governo israeliano con l’incarcerazione. Chi si appella alla superiorità democratica di Israele rispetto ai paesi limitrofi faccia ammenda. Non basta soltanto far finta di essere democratici, bisogna pure esserlo veramente. Israele non rispetta le risoluzioni ONU che gli impongono di abbandonare i territori che occupa militarmente in maniera del tutto illegittima da moltissimi anni, ma mai nessuno ha paventato l’ipotesi di un intervento delle Nazioni Unite, proprio perché è un alleato che fa comodo a tutti. I paesi occidentali che oggi fanno la voce grossa sono gli stessi che hanno fatto sì che in Africa ed in Medio Oriente si determinasse la situazione attuale. Per citare la Bibbia, chi ha orecchie per udire, oda.
Come sia scoppiata la rivolta in Libia - come anche le altre insurrezioni che hanno interessato il Nord Africa ed i paesi arabi - nessuno può saperlo. Allo stato attuale si possono soltanto fare supposizioni. La teoria secondo la quale i popoli del mondo arabo in questo modo manifestino un desiderio di democrazia appare come una soluzione semplicistica - che soltanto noi occidentali possiamo concepire - ad un problema in realtà molto più complesso. Sia ben chiaro, un paese dove la mentalità prevalente è quella secondo la quale è meglio mettere al mondo il maggior numero di figli possibile e farli campare male, perché così portano più stipendi a casa, che farne nascere uno solo e farlo vivere dignitosamente non può avere desideri di democrazia, sarebbe una forzatura logica. La teoria secondo la quale, invece, vi sarebbe una sperequazione economica tra le classi sociali ed in conseguenza un crescente bisogno di generi di prima necessità tra i ceti più bassi sembrerebbe già più credibile, anche se aleggia sempre l’idea che dietro ai focolai di tensione vi sia in realtà lo zampino di qualche paese straniero. Lo spettro del complotto internazionale ha sempre la sua ragion d’essere, la storia ne ha dato dimostrazione. Non sarebbe la prima volta che una nazione di spicco sullo scenario internazionale utilizza la popolazione locale come una pedina per cambiare la classe dirigente al vertice di un altro paese.
La crisi libica è spunto per molteplici riflessioni. Poiché si rischia una nuova Somalia a poche centinaia di chilometri da casa nostra, bisogna porsi necessariamente alcuni interrogativi.
- Chi è Muhammar Gheddafi? E’ la stesso dittatore degli ultimi 40 anni, non è cambiato affatto alla luce delle recenti vicende. E’ un criminale, un terrorista, un nemico della democrazia. In passato ha lanciato missili contro il nostro paese, gestisce in combutta con gli schiavisti africani il traffico di clandestini verso le coste italiane, fa sequestrare autoritativamente imbarcazioni italiane nelle acque internazionali in barba al diritto della navigazione ed alle convenzioni internazionali, ha foraggiato terroristi che si sono macchiati di crimini orrendi, su tutti la strage di Lockerbie. Non vi basta?
La sua dipartita sarebbe una lieta notizia per la comunità internazionale, se non fosse che, assecondando le legittime aspirazioni del popolo libico (principalmente l’aspirazione a liberarsi di lui), secondo l’antico brocardo per il quale al peggio non c’è mai fine, non ci si possa ritrovare a cadere dalla padella nella brace, magari con la Libia guidata da qualche fanatico islamista. Gheddafi, infatti, come tutti i beduini, è tutto fuorché un fondamentalista islamico. Quando vuole apparire tale, lo fa soltanto per entrare nelle grazie di qualcuno. E’ un sedicente musulmano.
- Che valore bisogna attribuire alla minaccia di rappresaglie nei confronti del mondo occidentale, in particolare dello Stato italiano, da parte di Gheddafi? C’è un detto che dice: can che abbaia non morde. Se pensiamo alla minaccia militare, le forze libiche non hanno i mezzi per porre in essere azioni di rilievo nei nostri confronti. L’aeronautica libica è composta da obsoleti caccia di fabbricazione russa e le attuali dotazioni missilistiche non sono assolutamente in grado di raggiungere le nostre isole, neanche quelle più vicine alle coste africane. Figuriamoci lo stivale. Anche se fosse, le nostre forze armate e quelle dei paesi NATO riuscirebbero a stroncare sul nascere un tentativo di questo genere. In verità un rischio c’è, anche se di tipo diverso. Il terrorismo. E’ sufficiente ad alimentare il clima di incertezza ed a rievocare gli spettri di Ustica e di Lockerbie. Nihil sub sole novi, è il cancro del ventunesimo secolo.
- Perché la Francia, storicamente pacifista e parte del fronte dei non interventisti, si è schierata fortemente in favore dell’intervento militare? Vi è chi si domanda se il cambio di rotta sia dovuto soltanto all’avvicendamento al vertice tra Chirac - tradizionalmente contrario ad intervenire direttamente nei conflitti armati - e Sarkozy, o anche ad altre ragioni. Tuttavia bisogna prendere atto che da quando l’attuale Presidente siede all’Eliseo la politica estera francese è cambiata radicalmente (vedi riavvicinamento alla NATO). Se Angela Merkel ha preferito tirarsi fuori dai rischi di un intervento diretto, Sarkò non si è tirato affatto indietro. Anche perché la Francia ha tutto l’interesse a stringere legami economici con un eventuale nuovo governo libico.
- Perché Russia e Cina, membri permanenti del Consiglio di sicurezza, hanno accettato con rammarico la decisione di intervenire militarmente? I due paesi hanno motivato la loro contrarietà appellandosi al principio di non ingerenza negli affari altrui. Tesi inattaccabile e condivisibile. Come sempre, però, gli interessi economici, in qualche modo, entrano in gioco. La Russia, come la Libia, è una grande produttrice di gas e petrolio. Se la Libia è in crisi, alcuni paesi europei non possono provvedere all’approvvigionamento di tali risorse, ergo devono necessariamente rivolgersi ad altri mercati. Quello più pratico parla sicuramente russo. La Cina, invece, ha colonizzato il continente africano in un regime quasi monopolistico: petrolio, risorse, attività economiche. Potrebbe non vedere di buon occhio eventuali tentativi volti a minarne l’egemonia.
- Quali interessi economici sono in ballo per l’Italia? La Libia è il nostro principale fornitore di petrolio e di gas. E’ bastata la crisi - ed il conseguente stop alle forniture - per vedere un’impennata nei costi dei carburanti in tutto il territorio italiano. L’ENI, che opera da anni in Libia con un trattamento di riguardo da parte dell’amministrazione attuale, potrebbe vedersi ridimensionare le forniture da un eventuale nuovo governo, che potrebbe premiare i paesi artefici della liberazione nazionale a scapito dei vecchi alleati del dittatore.
- Chi sono i ribelli? Domanda alla quale è difficile rispondere. Non si è capito bene, si sa soltanto che la loro finalità principale è quella di rovesciare il regime del colonnello Muhammar Gheddafi. Per il resto non sembrano mantenere una linea politica univoca. Se è vero che la democrazia non si esporta (e la storia lo ha dimostrato), sembra che gli stessi ribelli che nelle scorse settimane avversarono l’idea un intervento straniero, abbiano poi esultato alla vista dei missili USA e dei bombardamenti francesi. Della serie: poche idee, ma confuse. Siamo nell’incognita più totale.
- Perché si è parlato di istituzione di una no-fly zone e poi si è intervenuti bombardando obiettivi militari? Probabilmente - è solo una supposizione - le forze della coalizione internazionale devono aver notato che anche impedendo i bombardamenti a danno dei ribelli da parte dell’aviazione libica, le forze di Gheddafi avrebbero comunque avuto la meglio su quelle degli insorti.
- Che figura ha fatto l’Italia sul piano internazionale, in particolare alla luce del trattato di amicizia Italia-Libia? Una figura barbina, che ha irrimediabilmente escluso il governo italiano dalla stanza dei bottoni, dalla direzione delle operazioni. L’Italia esce ridimensionata sul piano internazionale per la sua politica estera intrallazzista e ambivalente. Il premier Berlusconi, prima nel ruolo di amico di Gheddafi, poi in quello di temporeggiatore/negoziatore (un Henry Kissinger de noantri) ed infine in quello di feroce avversario del raìs, non era - e non è tuttora - credibile agli occhi della comunità internazionale. L’Italia si è necessariamente dovuta adattare a quelle che sono le principali tendenze in sede internazionale, ha dovuto mettere a disposizione le proprie basi ed i propri mezzi e rischierà in prima persona di pagare economicamente (per le vicende dell’ENI) ed in termini di sicurezza nazionale (per il rischio terrorismo) l’intervento militare in Libia.
L’accordo Italia-Libia è necessariamente destinato a venir meno. La visita del colonnello a Roma, spettacolo farsesco, al tempo stesso assurdo ed allucinante, è ormai storia passata. L'unica consolazione - ed il merito questa volta spetta ai parlamentari IdV -, è quella di aver impedito a Gheddafi di tenere un discorso al Senato della Repubblica. Sarebbe stata la morte della nostra democrazia.
Alessio Lannutti
venerdì 18 marzo 2011
Io non mi sento italiano, ma per fortuna (o purtroppo) lo sono
Siamo il popolo italiano da ormai 150 anni, forse uno dei più contraddittori del mondo, un ossimoro perpetuo, gran lavoratori e maestri nell’arrangiarsi, entusiasti ed annoiati, amati e odiati. Siamo arabi ed alpini, fieri del nostro paese anche se spesso ne parliamo male, capaci di vette irraggiungibili e di cadute in picchiata irreparabili. Per gli stranieri siamo pizza e mandolino, artisti, poeti e viaggiatori, seduttori, affascinanti cantastorie, ospitali, ma anche mafiosi, maleducati e scansafatiche, teatranti nel senso peggiore del termine, inaffidabili. Molti in Europa ci considerano un fanalino di coda - se non addirittura una zavorra - e non solo per il politicante di turno, ma per la nostra mentalità.
In cosa ci differenziamo veramente dagli altri? Perché ci ostiniamo ancora a non comportarci come italiani?
Non è colpa dell’odio interno, dell'eterna contrapposizione tra nord e sud: da noi avrà assunto anche tinte forti e sopra ogni riga, ma non si pensi che un parigino si senta fratello di ogni pescatore della Normandia o contadino della Provenza, perché non corrisponde alla realtà. Tuttavia i francesi ed i tedeschi sono popoli, gli italiani non ancora.
Noi non vogliamo capire che lo Stato siamo noi, che amarlo, difenderlo e rispettarlo corrisponde ad amare, difendere e rispettare noi stessi. Come si può provare del sano patriottismo quando non ci riconosciamo ancora nello Stato che ci rappresenta, ma piuttosto siamo i primi ad offenderlo, ad ingannarlo ed a rinnegarlo appena ne abbiamo l’occasione?
Questo autolesionismo sterile ci priva di un’opportunità, quella di influire come popolo nella vita del nostro paese: i tedeschi scioperano in blocco per l’aumento del prezzo del latte, non lo acquistano; i francesi si ribellano se il governo tocca loro una legge sul lavoro sulla quale non sono d’accordo; sono parte attiva come comunità nella vita del loro paese, si danno un peso. E noi? Dobbiamo ancora capire che pagare le tasse vuol dire dare a noi stessi.
Non aspettiamo il giorno del bicentenario per ricordarci che vogliamo bene allo stato italiano.
Daniela Manca
venerdì 11 marzo 2011
Facebook, social network ed affini: piccole esperienze di un utilizzatore disilluso
Continua la linea editoriale informale, colloquiale, leggera, di Antitesi. Perché l’informazione può anche essere uno svago, una distrazione dai drammi dei nostri tempi e dai problemi della vita di tutti i giorni. Posso rassicurare dall’alto della mia mediocre esperienza in materia che non sta scritto da nessuna parte il contrario. Anzi, spesso è proprio dietro ai piccoli problemi quotidiani che si celano questioni sulle quali nessuno si sofferma mai debitamente. Tutti i temi trattati, anche i più frivoli, possono avere risvolti interessanti e far riflettere le nostre menti, altrimenti annebbiate da questioni sulla carta più rilevanti.
Tutti conoscono Facebook, è un dato di fatto. Ormai anche le persone più avanti con gli anni hanno sentito parlare della piattaforma ideata da Mark Zuckerberg, l’hanno sperimentata almeno una volta, ci si sono confrontate o addirittura l’utilizzano assiduamente. Gli unici che hanno rinunciato del tutto a cimentarsi nel mondo dei social network sono gli individui che presentano - premetto che quella che seguirà non è affatto un’offesa nei loro confronti - una particolare chiusura mentale nei riguardi del mondo della tecnologia. L’unica loro colpa è quella di non aver subito il fascino della modernità ed in questo non c’è assolutamente nulla di male. Per capirci, rientrano in questa categoria tutti quelli che hanno sempre avuto problemi a programmare il proprio videoregistratore, che hanno sempre fatto ricorso alla “maggiore esperienza” di un figlio adolescente per farsi battere al computer un documento, che hanno digerito a malincuore l’inserimento di nuove diavolerie (sms, mms, wap, gprs) nel proprio telefono cellulare. Quelli, in parole povere, che hanno lottato con l’hi-tech, ma si sono subito arresi. Si sono presentati ad affrontare un avversario troppo grande, addirittura enorme, fuori della loro portata, ben armato, scaltro, smaliziato, del tutto impreparati, uscendone immancabilmente sconfitti. Per queste persone la sola idea di poter intrattenere relazioni sociali attraverso uno schermo ed un’accozzaglia di cavi elettrici e microchip è talmente assurda ed avvilente da risultare persino blasfema.
Se tra le persone più anziane un quadro di questo tipo è perfettamente credibile e rappresentativo della realtà fattuale, risulta difficile credere che una generazione di nativi digitali come quella dei giovani d’oggi (dagli adolescenti fino agli adulti che hanno raggiunto la fatidica soglia degli “anta”) possa sottrarsi dal partecipare a quello che è ritenuto un must, uno strumento immancabile per relazionarsi con gli altri, coltivare le proprie amicizie, organizzare la propria vita sociale. In un futuro non molto prossimo una riflessione come quella sviscerata fino ad ora potrà addirittura apparire assurda ed anacronistica. Già i bambini nati nell’ultimo decennio ragionano, agiscono, si relazionano, in una maniera completamente diversa da quelli venuti al mondo in precedenza: sono figli della tecnologia e crescono insieme ad essa. Si rapportano con le novità ad un livello di equiordinazione.
Pensiamo invece alla generazione dei nati negli anni ’80, ritenuta - a torto o a ragione - da quelle precedenti, da quei famosi sessantottini che si vantano di aver affrontato rivoluzioni sociali e culturali (ci piacerebbe a questo punto sapere in concreto cosa abbiano realizzato loro di tangibile, ma è tutta un’altra storia), come un mero prodotto del benessere, una congrega di individui del tutto privi di ideali, di valori e di qualsiasi interesse. Questa generazione, in realtà, è formata da persone che si sono dovute adattare negli anni della propria crescita e del proprio sviluppo all’incredibile progresso economico e tecnologico della loro società. La tecnologia (si pensi ad esempio all’avvento e diffusione della televisione commerciale), ha cambiato i valori diffusi tra la popolazione, l’educazione, il modo stesso di vivere. Non ha però contribuito a plasmare l’identità dei giovani adulti di oggi. C’è una celebre canzone dei Supetramp, pubblicata verso la fine degli anni ’70, che è incredibilmente attuale. Nel ritornello, recita così: “Volete, per favore, dirmi cosa abbiamo imparato? So che può sembrare assurdo, ma per favore ditemi chi sono”. Queste parole rappresentano splendidamente la generazione dei nati negli anni ’80, che ha avuto il merito di stare al passo coi tempi, di riuscire ad andare avanti nonostante il mondo non fosse più lo stesso. Sebbene sia riuscita a trovare una propria dimensione senza piangersi troppo addosso, ha tuttavia mantenuto una certa melanconia nell’affrontare i cambiamenti, nel guardarsi indietro, nel rapportarsi con il proprio vissuto. E’ la generazione di chi scrive. Pur non avendo la pretesa di arrogarmi il diritto di parlare in nome della generalità di miei coetanei, nati in questo tribolato decennio, ritengo che le persone che abbiano maggior titolo per analizzare il fenomeno Facebook/social network appartengano proprio alla mia generazione.
Le riflessioni in esame (e quelle che seguiranno) scaturiscono da una conversazione intercorsa - ovviamente sempre in via telematica - tra il sottoscritto ed un amico, mio coetaneo. Il dibattito è stato prodromico alla formulazione di alcuni interrogativi esistenziali di non poco valore: fino a che punto Facebook ha condizionato le nostre esistenze? Perché oggi una grandissima parte dei giovani adulti del nostro paese utilizza i social network quotidianamente, spesso anche più volte nell’arco di una sola giornata? Perché dare tutta questa importanza ad una piattaforma virtuale?
La risposta a queste domande non è facile, per quanto possa sembrare scontata. I social network vengono impiegati per ingannare il tempo, svagarsi qualche minuto dallo studio o dal lavoro, trovare qualcuno - sia pure il conoscente incontrato due volte per caso dal fruttivendolo all’angolo - disposto a fare quattro chiacchiere, anche se magari in realtà non ci importa nulla di sapere come gli vada la vita e quali programmi abbia per la serata. Se non lo sentiamo né vediamo mai, difatti, ci sarà poi un motivo, no?
Altro problema fondamentale: nei social network tutti (o quasi) possono farsi gli affari degli altri, è la regola aurea. Sebbene questo principio subisca un temperamento attraverso la predisposizione di tutta una serie di strumenti a garanzia della propria privacy, la stessa presenza di queste impostazioni “anti-impiccione” rappresenta una contraddizione mica da ridere, visto che se tutti se ne avvalessero, verrebbe meno lo scopo stesso per il quale i social network sono stati concepiti. Posso fare un esempio: ho 100 amici su Facebook e decido di far vedere le foto della mia ultima vacanza soltanto ai 10 più stretti, che frequento spesso anche nella vita vera. Ecco che il fine ultimo della creatura di Mark Zuckerberg va letteralmente a farsi benedire. E se qualcuno vorrà ribattermi che non sono io a stabilire a cosa servano i social network e quali finalità debbano perseguire, potrò però asserire, non senza una certa protervia, la ragione per la quale sicuramente non sono stati realizzati: farsi i fatti propri.
Insomma, il mondo virtuale dei social network presenta immancabili implicazioni etiche. Per un utilizzatore avveduto, ad un certo punto, arriva il momento di riconsiderare le proprie convinzioni, di uscirne fuori, di staccarsene. E chi ha 25, 30, 35 anni, non si metta in testa di voler colmare il gap tecnologico con gli adolescenti di oggi, perché non è affatto di natura tecnica, ma ontologica. Ne uscirebbe irrimediabilmente svuotato.
Mai avrei pensato che un semplice sito internet potesse arrivare a cambiare la vita di milioni di persone, catalizzandone l’attenzione ancor più della televisione e dei suoi insulsi - ma (sembrerebbe) coinvolgenti - reality show. Ma di Facebook, ne sono convinto, si può fare a meno. Chi la pensa diversamente è, a mio modesto avviso, in errore.
I primi passi per disintossicarsi dal fenomeno dei social network, è prenderli realmente per quello che sono. Facebook è uno strumento che può essere utile se adoperato con raziocinio e moderazione, ma Facebook non è la vita. La vita, quella vera, riprendetevela. Andate a fare una passeggiata con i vostri amici, praticate uno sport, tornate al contatto umano vero e proprio. Non restate chiusi in casa davanti allo schermo del vostro PC, perché un giorno - forse non oggi, forse non domani, ma prima o poi - potreste accorgervi in un batter d’occhio di aver rinunciato alla vostra vita per un semplice, sterile, surrogato. Di aver abdicato in favore di qualche riga di codice HTML. In parole povere, a prescindere da quanti amici virtuali abbiate, di essere più soli di quanto possiate pensare.
Alessio Lannutti
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